La vicenda di Franco Battiato, al di là del rapido consumo mediatico ed epilogo politico, lascia, o meglio rinnova, interrogativi e sconforti in quella tenace minoranza dedita, per passione e “mestiere”, alla parola… La poesia, infatti, non sarà il mestiere piu’ antico del mondo, neanche il piu’ remunerativo o popolare, ma custodisce e ravviva, nel tempo e nella cultura, una possibilità preziosa per l’essere umano: dire la verità. “Verità” intesa non come rigida, ma storicamente mutevole, costellazione di contenuti, ma come ricerca personale, gratuitamente faticosa e profonda, di significati e modi per la propria e altrui esperienza umana. E’ evidente come i linguaggi ai quali siamo socialmente esposti si discostino nettamente da questi criteri: siamo diventati vittime e carnefici di continue, piu’ o meno accurate, operazioni pubblicitarie … Il pericoloso marketing identitario dei media, a vari livelli, invade e, peggio, struttura la comprensione del mondo: buoni/cattivi, vincenti/perdenti, amici/nemici/amici di Maria, nominati/indicibili… Dal talent al giornalismo “serio”, tutto fa leva sul “personaggio”, e sulla sua capacità di vendersi mediaticamente. Il cane si morde la coda, e spesso la comunicazione diviene un abbaiare. Can che abbaia…? Essendo la vita politica italiana già satura di bestialità, posiamo nel bosco l’osso del punto interrogativo.
Torniamo alla poesia: essa ci ricorda che la Libertà e la Dignità umane sono il peggior “prodotto” possibile; ma, proprio per questo, non consegna verità cotte e mangiate, solo percorsi possibili problematici, aperti e luminosi d’arte… Mentre il rappresentante di un prodotto rap-presenta, appunto, il prodotto stesso come condicio sine qua non per attingere a sterminate, quanto inverosimili e omologate, possibilità esistenziali (si veda, ad esempio, l’uso del concetto di “libertà” nelle raffinate pubblicità delle auto), il poeta, invece, non viene a vendere l’infinito scontato su un pezzo di carta… dicendo “Immagina, puoi”. Il poeta è il primo ad essere consapevole dei limiti del suo infinito, dei demoni della sua creazione. Non li nasconde, anzi li trasforma in energia vitale di verità, in com-prensione creativa degli opposti, prima di tutto interiori. Ecco perché ci sono anni luce di verità tra un rigo di poesia e un intero discorso promozionale (politico, religioso, commerciale), volto essenzialmente a rassicurare sul fatto che i brutti e cattivi sono gli altri.
La verità dell’Arte rasenta di continuo il paradosso e la pietas, figli naturali di un sentire in profondità le contraddizioni della vita. Non si può non essere a disagio, dunque, nella volgarità del pensiero (ben piu’ opprimente di quella, occasionale, delle parole), che passa spesso e volentieri dalla retorica in malafede del “fare” (basata proprio sull’ostentatazione mediatica, per mezzo delle bistrattate “parole”…); non si può non rinnovare questo disagio di fronte alle bizzarre e stolide parabole ascendenti o discendenti di personaggi che passano, con la tipica, di volta in volta, spettacolare crudele connivente, superficialità dell’attuale informazione, dalle stelle alle stalle e viceversa (col rischio che, in quest’ultimo caso, la merda cada dall’alto).
In questa deprimente situazione culturale, il paradosso di un Artista inchiodato alla logora parola magica del maschilismo, ricorda quanto sia difficile dire la verità; quanto resti fragile la lucreziana possibilità di percorrere con la propria parola strade mai battute da altri. L’unica cosa che si può allora rimproverare a Battiato, è di non aver trovato un modo meno culturalmente stantio, piu’ fantasioso e coerente, di esprimere la disapprovazione per quel determinato modello culturale che fa del vender-si un modus vivendi, e che costituisce il vero problema della nostra società.
Un’occasione persa per “dimostrare” che la poesia è il mestiere piu’ antico, e piu’ nuovo, del mondo.
Certe cose non si possono comprare…
Autore: Maria Rosa Irrera
Lettera ad Anna
“Doveva esserci una ragione,
anche se all’apparenza irrilevante,
ma questo non lo svelerà neppure la Nuda Verità
occupata a rovistare
nel guardaroba terreno.”
W. Szymborska
Cara Anna,
non c’è sipario per il dolore: è passato il treno di questa frase a coagulare tutto ciò che lavora, vive e muore in me; ad addensare lo scenario di questo nuovo spazio da aprire, affollare le figure sulla rotaia dell’essere.
L’interrogativo che inauguro tra i binari di queste righe, mosse e bloccate dal tuo ricordo, è il seguente: “Che forma ha la libertà?”, ovvero qual è il rapporto tra forme artistiche e dimensioni esistenziali, tra trasformazioni, operate dall’Arte, e conformismi, operati dalla società?
Le partiture, piu’ o meno aperte, d’occasioni e identità all’interno del testo letterario, tra occasioni dell’identità e identità d’occasione, rendono e marchiano artisticamente accenti di significato, in varie combinazioni formali attraverso le quali si esprimono le “scelte” dei personaggi, e il relativo rapporto con lo sfondo sociale. Viene quindi a crearsi dentro la pagina un intreccio di rifrangenze, tra identità ed eventi che attivano e/o frustrano significati individuali, a loro volta strettamente connessi all’occasione storica che li ha generati. Ovviamente la dimensione artistica interconnessa dell’ “identità” e dell’ “occasione” varia notevolmente nel corso della storia della letteratura, proprio per il suo forte significato culturale: dalla dimensione pura profonda della tragedia che colloca un iter identitario all’interno d’un mosaico fatale (che ne regge il gioco di senso complessivo, pur facendosi, però, sempre piu’ pieno d’increspature d’humanitas, in grado di toccare con l’arte la radice dolorosa e conflittuale dell’esperienza umana sul fondale sociale), alla terra di confine euripidea, con le molteplici increspature dialogiche, fino al romanzo polifonico di Dostoevskij; dall’occasione provvidenziale in Manzoni alla dimensione umoristica e metatestuale di Pirandello come crepa sul nulla… Si passa dall’ “occasione sensata”, divino-fatale-provvidenziale, al caso, quello che accade e “cade” in testa all’ ex-eroe e ne dirige i flussi identitari; salvo, poi, arrivare all’assurdo artisticamente felice di un nuovo dio, pardon diavolo, ex machina, a “recuperare” una qualche dimensione paradossalmente teleologica nel caos degli eventi… “Il mattone, senza una ragione,” interruppe con tono grave lo sconosciuto “non cade mai in testa a nessuno. Del resto, le garantisco che lei non è minacciato da nessun mattone. Lei morirà di un’altra morte. […] Misurò Berljoz con un’occhiata, come se dovesse confezionargli un vestito […]”[1].
Le “leggi non scritte” di Antigone, l’eccezionale auto-nomia conformisticamente vuota e creativamente piena di Pippi Calzelunghe, che si può permettere anche il lusso psicologico-linguistico d’inventare prima la parola (spunk) e poi trovare la cosa; l’auto-nomia nichilistica destinata al fallimento e poi alla redenzione di Raskol’nikov, a differenza del successo del tutto casuale, appunto, del collega cinematografico (piu’ opportunista che nichilista, in verità) di Match Point (2005, regia di W. Allen). All’opposto, l’inconsistenza psicologica, dalla resa artisticamente vertiginosa, di Lolita, che non può affrancarsi dalla dimensione di “creatura”: di Humbert, della pubblicità…, dai cui riti meccanici (auto)consumistici (esperienza sessuale compresa) tenta invano di trarre linfa identitaria; l’oscillazione intermedia, problematica ma non traumatica, della vittoriana Alice che non ha fretta di crescere, o diminuire (a dispetto di quello che mangia e beve, mentre Lolita mastica invano), e con la sua identità prende tempo e spazio per chiedere e capire “le regole del gioco”… fino a collocarsi in modo piu’ maturo all’interno della scacchiera artistica di Carroll. Ché tanto poi, da grandi, se non si bruciano le tappe e le pagine, può capitare comunque di dover fare accordi col Diavolo, com’è successo a Margherita: una scelta etica e anticonformistica d’amore che va di pari passo con la frantumazione estetica del “reale”, colto nella sua rigida illusorietà. Ecco perché capolavori come Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, Il Maestro e Margherita e Lolita, possono essere letti anche come un processo estetico-etico, rispettivamente, all’assurdo vittoriano, all’assurdo sovietico e all’assurdo consumistico. E non sembra per niente casuale che nell’attuale Italia in cerca d’autore, alle prese con decenni d’assurdo berlusconiano, ci siano uno show e un romanzo satirici che evocano due delle opere sopracitate (rispettivamente, Crozza nel Paese delle Meraviglie, e Lolito di D. Luttazzi). Da Oreste a Mitja Karamazov, passando per Amleto, ogni testo, come ogni testa, è un tribunale (e un teatro), nel quale l’autore ricrea col suo lungo e vario sguardo artistico l’intreccio conflittuale d’un dramma interiore e d’uno sguardo sociale: tra sfavillanti caliginosi strabismi e la dritta miopia dell’ occhio della gente… (del resto, anche la morte ha per tutti uno sguardo).
Dal malocchio al Grande Fratello, insomma, Anna, non abbiamo piu’ smesso di guardarti: la sceneggiatura metateatrale, carillon-matrioska effetto casa di bambola, dell’ennesimo film che ti hanno dedicato (2012, regia di J. Wright), incontra il caos di scena di questo primo grado critico, mentre agli sguardi dei tuoi contemporanei si aggiungono i nostri… A condensare il carico del giudizio, a misurare lo scarto dalla norma, il rapporto tra il “gioco delle parti” e la ricerca di verità umana e artistica… sempre su misura; mentre il significato d’economizzatore psicologico e regolatore sociale dei conformismi resta immutato nel tempo e taglia unica. Spesso la ricerca su misura al telaio d’una pagina, passa, dal grande multiforme amore, ai codici chiaroscurati di verità di miseri costumi di scena (siamo sicuri che l’abito non faccia il monaco?): berretti, marsine strette, vestiti nuovi… calzini spaiati… in modo che qui anche “Niente” e “Nessuno” abbiano un loro cielo e una loro identità di carta.
Ciò non toglie, mia cara Anna, ora come allora, che non ci sia sipario per il dolore.
Solo stazioni.
[1] M. Bulgakov, Il Maestro e Margherita, BUR, Milano 2000, p. 39.
C’è una volta… One Billion Rising
C’è una volta… il 14 Febbraio 2013, One Billion Rising: anche qui c’era di mezzo un ballo, solo che non si trattava di un ballo per essere scelte, ma di un ballo per scegliere, non era questione di prìncipi, ma di princìpi… Le donne e gli uomini che vi hanno partecipato non dovevano dimostrare qualcosa a qualcuno, ma volevano semplicemente esser-ci… Cosa significa “esser-ci”?
Capita che le nostre azioni non siano sorrette da scelte autentiche, che dentro i nostri gesti non si disegnino speranze, ma si consumino (e ci consumino) riti meccanici chiusi in ricadute pratiche immediate. Ci siamo cioè socialmente abituati alla strettoia dello scopo utilitaristico, e diseducati all’orizzonte del significato… Il niente del “nessuno fa niente per niente” è un terreno fertile anche per la violenza: dove non c’è il tempo, lo spazio, il modo, di dare senso a se stessi e agli altri, la dimensione del possesso diviene l’unica, fragilissima, via di “soddisfare” i propri bisogni identitari e relazionali… Il problema è proprio questo: tra la tragedia (spesso annunciata) e l’opacità del quotidiano, c’è tutta la banalità del male: una miriade di insensatezze e connivenze culturalmente nutrite. E’ facile dire “no” di fronte a una vita stroncata, ma chiediamoci seriamente quanto spazio e dignità sappiamo dare alla nostra libertà e a quella di un figlio/a, allievo/a, fidanzato/a, marito/moglie… Riflettiamo su quanto l’idea mitica della “femminilità” oscilli ancora pericolosamente e stupidamente tra il modello-Mulino Bianco e il modello-Playboy, tra l’accudimento e la provocazione, come se l’ ESSERE DONNA si riducesse comunque a un compiacere di vario tipo i bisogni degli altri.
Riflettiamo, dulcis in fundo, sulle parole che rendono questi schemi-aspettative culturali: l’innocuo desiderio di una mamma in attesa di avere una figlia femmina “così te la vesti come vuoi”; la normale gelosia del povero padre destinato (nel migliore dei casi) a mandare giu’ bocconi amari durante l’adolescenza della figlia ormai cresciuta, che magari, nel frattempo, avrà pure trovato un ragazzo innamorato, molto innamorato, che le dice come vestirsi! Che ragazza fortunata! Oppure pensiamo alla bonaria indulgenza di un’espressione come “scappatella”, di contro alla pesantezza di epiteti che (guarda caso) non contemplano nemmeno la forma maschile! Imparare a esprimersi e ad accettare l’espressione dell’altro, chiamare le cose col loro nome, eventualmente inventando nuove parole se quelle che abbiamo non bastano o non sono piu’ adeguate, significa proteggersi dalla logica del possesso, in tutte le sue forme: da quelle culturalmente ammantate di paternalistica benevolenza, a quelle piu’ brute.
Ballare insieme allora, è stato intanto utile a darci reciprocamente senso e dignità, a riconoscerci in quanto esseri umani, a prescindere dal potere sociale esercitato; a segnare e sognare col nostro corpo la possibilità dell’espressione e dell’incontro, opposti alla censura esistenziale e al possesso. La bacchetta di una fatina che ci concia per le feste e l’infatuazione di un principe non cambieranno la Storia: ma il 14 Febbraio 2013 nelle piazze abbiamo tutti lasciato un pezzo di gioiosa consapevolezza, e, ne sono sicura, saremo NOI a tornare a riprendercela.
Italia in cerca d’autore
Mi onoro di rappresentare l’Italia in cerca d’autore ri-tagliata fuori da un certo tipo di rappresentazione dell’Italia. Certo, so che, oggi piu’ che mai, la “realtà” coincide con la sua rappresentazione, e che questo fondamentale assunto che nell’Arte significa possibilità di comprensione polisemica, e trasformazione liberatoria, nel Potere della Propaganda, significa, al contrario, istituzione di sensi unici, vicoli ciechi del pensiero, necessità.
Quando Nabokov, tra una caccia di farfalle e l’altra, imprigiona tra le righe una certa Lolita, sta, al tempo stesso, s-prigionando un tenero strazio di nuova bellezza e illuminando i paradossi di una società che ci “crea” come oggetti-soggetti di propaganda, come detentori di una sbandierata “libertà” cannibalesca, o di una, altrettanto sbandierata, meccanico-pacifica assenza di libertà (non c’è bisogno di dire quale film sintetizza ad arte tutta la violenza di questa polarità). Ora, la “libertà” che sembra consistere nell’avere i soldi per adeguarsi al modello creato dalla pubblicità, instaura uno stagnante circolo vizioso, nel quale la mia Lolita si fa, da creatura d’arte e d’amore, icona di stile per teen-ager giapponesi; Alice diviene la povera vittima di un pedofilo, e pure drogato, nei commenti su facebook di persone che non hanno idea del confine tra l’opera, l’autore, la persona, il personaggio… Ecco, a mio avviso, l’humus, non prettamente italiano, per il quale poi, gli stessi commentatori perbenisticamente inconsapevoli di facebook si voteranno a Santo Silvio, immaginetta ideale in quanto a soldi e successo, e squisitamente reale in quanto a vizi (certo, entro i limiti del maschilismo!).
Abbiamo creato, piu’ o meno in malafede, una società che si nutre della contrapposizione semplicistica tra mostri ed eroi, buoni e cattivi, che perde gli strumenti culturali per interrogarsi sul marcio e sul bello possibile che c’è alle sue stesse radici, su quale spazio vuoto e su quali bellezze e verità tradite di tutti si innestano le mostruosità e gli eroismi di pochi. Io, per inciso, non vorrei sentire che Falcone e Borsellino sono degli “eroi”, delle icone postume di una partita persa in partenza, ma un pezzo massimamente dignitoso e umano troppo umano della realtà, della MIA realtà.
Non può chi conosce l’illusione libera e fertile dell’Arte, permettersi l’illusione prigioniera e sterile che la “realtà” italiana sia solo la sistemica e sintetica costruzione del berlusconismo, ben congegnata, certo, ma fino a un certo punto… Non basta far precedere un discorso dallo stilema C’era una volta, per attingere alla fonte della fiaba, non basta sostituire Shahrazàd con Maria De Filippi per avere Le mille e una notte… Se è per questo abbiamo anche artisti della satira (Crozza, Guzzanti, Littizzetto…) per disinnescare i soporiferi ingranaggi e disincantare i posticci incanti…
La risposta politica che viene dalla cultura dell’arte (non a caso fatta a pezzi non solo dal governo Berlusconi) consiste nell’avere una riserva di fantasia e ironia per educare ed educarsi a non sentirsi obbligati a sentirsi liberi di essere come tutti gli altri… Confesso qualche imbarazzo storico, qualche pessimistico mal di pancia, qualche guerra fredda interiore, a stare tra le cenerentole sovietiche, le biancanevi disneyane (avete notato che i nani si risolvono ad ospitare la bella principessa solo quando lei offre loro i suoi servigi domestici?), le lolite giapponesi, le –ine italiane, e le difficoltà opposte e complementari di contesti culturali vicini e lontani… Il punto è che un corpo non dovrebbe essere una dimostrazione, di nulla; ma il modo che abbiamo per sentire il mondo.
Essere non è dimostrare, e mettere l’identità sotto bandiere o artigli, per questo giuro da italiana che se mi si chiede una parola che comincia con la “B” penso subito, ancora, a “Bellezza”…
Se me ne si chiede una con la “F”… ,ora piu’ che mai, “Fantasia”; … o tutt’al piu’ “Farfalla”, ricordandomi di Nabokov, ovviamente.
E delle ali che cerco.
Prologo
Specchi e pozzi,
il diavolo e l’acqua santa,
le coincidenze sono incendi di senso:
quando tutto torna, tu non te ne andare…
(Orlando, Orlando addormentato,
sfiori e trasformi come d’un fiato
cuore e scenario…)
A quel paese Alice Lolita e Margherita
questa pagina chiamala Itaca:
se ti pungi al fuso di una frase
vedrai la tela di chi veglia
per farsi trovare, di chi sogna
per farsi capire
con l’amo sulla luna.