È finita… in musica! (Apollo e Pitagora)

Apollo
©Phillip Martin

Pitagora, ormai vecchio e un po’stravagante, si trascinava a fatica per le vie di Metaponto, con una bisaccia sulle spalle piena di numeri.
Questi risentivano dei movimenti talvolta bruschi dell’onorabile vecchio e, soprattutto, si sentivano soffocare, chiusi in uno spazio così angusto, condannati a un perenne e inutile rimescolamento, per cui emettevano interminabili lamenti.
Ma, in un bel mattino di inizio estate, il vecchio filosofo s’imbatté nel dio Apollo, in vacanza da quelle parti, il quale, orecchio fino, chiese con preoccupata curiosità cosa fossero mai quei suoni così lacrimevoli e scomposti provenienti dalla sua bisaccia.
“Sono i numeri”, rispose Pitagora, “che, mescolandosi continuamente a caso, si affaticano e, perciò, non smettono di lamentarsi”.
“Ho un rimedio per loro”, rassicurò premuroso il dio e, poggiata a terra la sua lira, invitò i numeri a disporsi ordinatamente sulle corde dello strumento; quindi, al lieve tocco delle dita di Apollo, essi smisero di piangere e cominciarono a emettere suoni nuovi e armoniosi, che il dio, lieto, chiamò “musica” e rese immortali.

Lettera a Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre

Simone, SartreCara Simone, caro Jean-Paul,
ancora una volta assieme, anche nel mio tentativo arrogante di cercare un dia-logos col vostro pensiero. Non riesco a scindere e allo stesso tempo a non-scindere la vostra irripetibile unicità, non un gioco dialettico, ma un esercizio di ragione. Vi penso assieme, legati dal filo rosso della complicità. Ecco cosa scrivevi, Sartre, al tuo grande amore: «Sognare ognuno per sé, scrivere l’uno per l’altra», «La mia vita non appartiene a me solo, voi siete sempre me, l’essere stesso del mio essere, il cuore del mio cuore». E ancora: «Non posso essere separato da voi, la mia vita non appartiene soltanto a me, voi siete sempre me stesso e non si può essere più uniti di quello che siamo voi ed io». Il “Castoro”, come amavi chiamare la tua Simone, è la donna inevitabile e l’amore necessario. Tra voi c’è stato un patto di fedeltà, un legame limpido e misterioso: «Sarà così e resterà nella mia vita: avrò amato senza il passionale e il meraviglioso, ma dal di dentro».

La libertà intesa così come la intendevi tu, caro Sartre, porta in nuce qualcosa di meravigliosamente tragico. Avanza con la sua forza un’egoicità che non lascia rivoli di speranza, che trascina l’uomo in un inferno terreno e tutto materiale in cui gli attori sono gli altri in rapporto a noi. Si impone un’inseità aberrante, ma tremendamente vera. Caro Sartre, sono cresciuta provando la tua stessa nausea, riscaldandomi al fuoco di un camino nemico, sentendomi inesorabilmente una passione inutile. Pensare di bastare a sé, nutrirsi della propria libertà come certezza e non come mera possibilità, palesa un amore smisurato per la vita, la stessa che ci procura una totale alienazione. E quanti scacchi, caro Sartre, nel tentare di superare i limiti della nostra razionalità…E misurarsi con l’altro è sempre un atto belligerante, anche quando uno sguardo si alza vestito di bianco ed invia messaggi di pace. C’è guerra nel nostro essere con l’altro, sempre. Anche quando arriva il senso di responsabilità a catturare l’alterità, questa prigionia fomenta il nostro voler essere padroni. Costringere l’altro tra le maglie strette di un amore, ritagliare spazi, luoghi e parole. Cercare invano una mediazione tra l’essere in sé e l’essere per l’altro, scoprendosi come nulla, come angoscia.

Di che colore è l’amore che legava e lega te a lui, cara Simone? (Non riesco a mettere le stesse distanze come con Sartre. Perché tu sei stata più di lui capace di tenerle assieme queste vostre unicità). Forse rosso come le bandiere comuniste oppure nero come il lutto di un tradimento? Magari possiede le sfumature tranquille del blu come una finestra sul mare che nasconde le terrecotte appese ad un filo su pareti bianche come gingilli estivi. Che tonalità possono narrare gli amori contingenti che come giochi si susseguivano senza sosta tra il necessario e l’assolutamente effimero? Ci può essere fedeltà nel tradimento? La disillusione appartiene ad un atteggiamento borghese farcito dal perbenismo dell’educazione e dalla “morale degli schiavi”? Farsi catturare dalla routine e dai vezzi della coppia comunemente intesa avrebbe sporcato la bellezza dei vostri quadri, delle vostre lune asimmetriche stagliate come solchi tra le linee del vostro logos. “To oti” (“questo è”), avrebbe suggerito Aristotele, mentre con dedizione assoluta, cara Simone, non ti allontanavi di un passo dalla sua anima, ma lasciavi spazi nel letto del tuo grande amore, occupandone altri solo per diletto. E c’era il ’68 e poi il ’77, cerimonie di addii da festeggiare, vini da bere, pensieri da rendere al mondo con tutta la forza e l’originalità politica che da sempre vi ha contraddistinti.

Cos’è un bacio di fronte alla possibilità della rivoluzione? Che importanza può avere non aversi, ma aversi per sempre oltre la caducità mondana? Essere l’uno per l’altra e allo stesso tempo non essere che per sé, perché questo presuppone un amore necessario e vero. Non l’inferno della normalità, ma lo straordinario che va oltre ogni convenzione sociale, oltre ogni regola del buon costume vomitevole ed arrogante, oltre la passione. E così siete guariti da voi e dal mondo. Esiste qualcosa di struggente nel ritrovarsi nel necessario e allo stesso tempo sganciare le zavorre del proprio sentire dai simboli, dagli oggetti, dalle clessidre ipnotiche. Esiste un che di magico nel prendere le distanze da un qualcosa che avevi considerato appassionante. Un’esperienza sublime che supera di gran lunga il convincersi che il contingente possa servirci come l’aria. Accettare insomma l’egoicità come esperienza mistica e irripetibile. E tornare a scambiare, come in un gioco, l’orrendo per il bello. È una possibilità del pensiero, come tempo da dedicare al proprio sé per imparare a disprezzare ciò che si crede amore, per relegarlo nel dovuto disprezzo, salvo poi utilizzare con lucidità la sua declinazione di imprescindibilità per provare ad essere felici. E non esiste nulla di più sensuale che il poter scegliere gli amanti e le amanti al proprio amore, un atto di umiltà che fa scendere il paradiso agli inferi. La potenza di Dio, tra gli anfratti infernali del tradimento, non come possibilità, ma come legge terrena che tutto riorganizza in funzione dell’accidente, tenendo però lo sguardo fisso al motore immobile che tutto muove come in una danza di luce, pur rimanendo nel suo egoismo a contemplare sé soltanto.
Vi abbraccio, compagni di un tempo che fu…, immaginandovi all’inferno a dar lotta alle fiamme.

Sonata a due

Mani Lasciarsi senza meraviglia
condonandosi un sorriso fraudolento
in uno sciagurato intreccio d’occhi
perduti in un vuoto assoluto
consumati da una superba
irrimediabile impazienza
e concludere la nostra
composizione comune
con una cadenza d’inganno.*

 

 

Note di storie

Raccontare rivelare il lasciarsi: strascichi di un gioco a nascondere che le leggi dei suoni catturano e consegnano a un imprevisto riverbero di vita. (M.R.I.)

 

* La cadenza è una successione di accordi che conclude un brano musicale o anche una sua parte. Ha una funzione espressiva e serve a definire la tonalità. Nel sistema tonale vi sono vari tipi di cadenza. Ognuna di esse è utilizzata per ottenere un effetto particolare: ad esempio, la cadenza perfetta soddisfa pienamente l’attesa dell’ascoltatore risolvendo il brano con un accordo che la mente già prefigura. La cadenza d’inganno, invece, disattende quest’attesa creando un attimo di sospensione che determina interesse e fa sì che inconsciamente egli si chieda con quale accordo si concluderà la composizione. (N.d.A.)

Ragazzi al mare

Spruzzi
©Sebastiano Irrera, 2014

I ragazzi
alti
sugli scogli
sono divinità di bronzo

-impossibile
la morte
e il paradiso-

Ai loro piedi
scoppiano
d’azzurro
le onde

 

 

Giovani dèi

La giovinezza scoppia di luce simile a quella sprigionata dalle onde di un mare estivo, ed è immortale, almeno…vista dalla riva, sospesa fra due azzurri

Animali sociali (II)

Coi tempi che corrono…

UN PIEDE PER TERRA di Maria Rosa Irrera

AristogattiUna volta il Gatto con gli stivali giunse nello Zoo delle due Sicilie per partecipare al ballo di un lontano parente, ma, per disgrazia, durante la festa venne derubato di uno stivale.
Al ballo c’erano lupi che perdevano il pelo ma non il vizio, rospi che si atteggiavano a principi, porci (comodi) che si atteggiavano a uomini, volpi, avvoltoi, gatte morte… Stavano tutti una favola, solo il povero gatto non riusciva a stare con due piedi in una scarpa.
Promise allora tanto lardo a chi volesse mettere lo zampino per aiutarlo a ritrovare lo stivale, ma, poiché ormai da tempo sia le carrozze sia le zucche erano vuote, e tutto cambiava per non cambiare mai, non fu possibile né friggere il pesce né guardare la gatta né recuperare lo stivale.
Da quel giorno, come risarcimento simbolico nei confronti del Gatto, lo Zoo delle due Sicilie venne inglobato in un nuovo Stato a forma di stivale, dove si continua a rubare e la bestialità è uguale per tutti; e la terra prima occupata dallo Zoo è ancora oggi lo zoccolo duro dell’aristocrazia senza scarpe di tutti i tempi.

 

 

VELOCITÀ… DI GIUDIZIO di Maria Lizzio

TartarugaUn giorno, un leopardo giovane e sportivo, mentre faceva jogging, incontrò su un sentiero polveroso una tartaruga e, senza chiedersi doverosamente quanta strada, magari, essa avesse già percorso, pensò con superficiale commiserazione: “Com’è lenta, poverina!”.
Naturalmente, essendo molto educato, l’elegante felino si guardò bene dal far trapelare ciò che gli passava per la mente, ma ebbe la cattiva idea di confidarlo agli uomini, i quali, passando parola, riempirono il mondo del frettoloso giudizio.
Poi, però, da un paese dove la gente, non avendo nulla da fare, aveva contratto il vizio di pensare (e per questo si era fatta una testa così ), arrivò Zenone, che ci prese un gran gusto a lasciare tutti a bocca aperta, spiegando, a modo suo, agli incauti che, se ne stessero pure tranquilli e buoni, nemmeno Achille piè veloce avrebbe mai raggiunto quel guscio vivente.
E la tartaruga pensò: “Forse, sono matti questi uomini, poverini!”.
Purtroppo, nessuno mai diede alla saggia bestiola preistorica la soddisfazione di sapere che la sua supposizione, come la…freccia di un arciere provetto, aveva colto nel segno.