Se un mattino di Marzo a Vizzini…

VizziniI luoghi hanno non solo un nome, ma anche un’anima, e conoscerli vuol dire esattamente scoprire quest’anima e sentirne la forza vitale.
Se il luogo è Vizzini, l’anima non può che esserne la fantasia realistica e dolente di Giovanni Verga.
Il viaggiatore attento, percorrendo le strade del paese, sente risuonare dentro di sé le voci dei personaggi verghiani e resta come avvinghiato alle loro speranze e fallimenti, passioni e miserie; sente su di sé il peso del loro destino amaro e ineluttabile: ne riscopre, insomma, l’universale umanità.
C’è il vicolo dove si consumano le passioni che inchiodano, seppure in modo diverso, i protagonisti della Cavalleria rusticana: la casa di Lola, che il destino ha voluto troppo vicina a quella di Santuzza; quella chiesa della mala Pasqua, dove nessuna resurrezione è possibile per questi dannati della terra, e, sulla stessa piazza, l’osteria della povera gnà Nunzia, madre sfortunata di Turiddu, il giovane innamorato che paga con la vita, laggiù, alla Canziria, la sua passione e la sua audacia.
A Vizzini matura la storia di un altro indimenticabile personaggio verghiano, che comincia da vincitore e finisce, inesorabilmente, vinto: Gesualdo Motta, mastro e don, tristemente schiacciato nell’ambiguità beffarda del suo destino di uomo straricco ma infinitamente povero, come è sempre chi tradisce i sentimenti per un bene materiale.
Nelle strade di Vizzini, poi, si può assaporare la fortuna di incontrare i personaggi verghiani «in carne ed ossa», grazie agli attori dell’Associazione Teatro Skené che, all’interno del Parco letterario «G. Verga», rappresentano le opere dello scrittore sul palcoscenico privilegiato dei luoghi che hanno ispirato la sua fantasia.
Così, in una ventosa mattinata quasi primaverile, è possibile risentire l’urlo che annuncia il compimento del destino di Turiddu: «Hanno ammazzato compare Turiddu!»; o imbattersi in mastro-don Gesualdo, più vivo e sconvolto che mai, davanti al palazzo Trao che sta andando in fiamme, mentre i vicini bussano urlando al portone, per salvare i proprietari in pericolo: «Don Ferdinando! Don Diego!».
E lo spettatore, percorso da un brivido, che è dono delle grandi emozioni, sente improvvisamente cancellata ogni distanza dai personaggi e vive come «normale» questa felice vicinanza: insomma, tocca con mano la certezza della loro umanissima immortalità.

Aci Castello: cronaca di un desiderio (il ritorno)

C’era una volta, e per l’ennesima volta, un desiderio: i desideri sono come i fantasmi, infatti di solito dove ci sono gli uni, ci sono anche gli altri, e chi non esprime gli uni, non vede gli altri.
Una volta, ma forse anche più di una, nel Castello sul mare di un paesino senza nome, viveva un fantasma: si chiamava Amore, e oltre alla croce tipica di tutti i fantasmi, cioè quella di non essere visto (che però permetteva di fare divertentissimi scherzi), ne aveva un’altra: quella di vedere (che permetteva di fare scherzi solo a se stessi).
Egli vedeva in particolare come Tutto (e sopra, anzi sotto, Tutto le persone) in quel paesino fosse scolorito, ma, essendo un fantasma, non aveva in sé la forza per colorare le cose: vedeva in sé, infatti, la trasparenza della luce, ma non il colore… Si ricordò allora di aver sentito parlare due turisti venuti a visitare il castello a proposito di un bravissimo pittore che, oltre Tutto, vedeva i fantasmi! Proprio quello che aveva sempre desiderato! Nessun pittore, infatti, per quanto colorato, l’avrebbe potuto aiutare, se non l’avesse visto. E questo era il motivo per cui sino a quel momento era stato trattenuto dal lasciare il suo castello e compiere quel viaggio… Certo, questo ve lo sto dicendo io: il fantasma non avrebbe mai ammesso di restare nel castello per paura di non essere visto: non avrebbe mai ammesso la malinconia dei voli, che aveva imparato a chiamare “Libertà”, i capogiri nelle stanze, che aveva imparato a chiamare “sogni”, e sopra, anzi sotto, Tutto, non vi avrebbe mai mostrato quella stanza chiusa, senza nome… quella, per intenderci, dove non arrivavano le carezze… Ma tanto, dimenticavo, voi non vedete neanche le stanze aperte.Sala "Jean Calogero" - Castello di Aci Castello

Insomma, quella volta, ma forse pure quell’altra, il fantasma si decise a partire: cammina cammina, anzi vola vola, arrivò nella Villa dove viveva il Pittore… Cammina cammina, anzi vola vola, arrivò nella Vita dove villeggiava il Pittore… “E se non mi vedesse?”, pensava appena il fantasma, salutando i tanti compagni residenti che gli venivano incontro, e conquistato dal colore Tutto intorno, che completava la sua naturale trasparenza, facendola brillare ed esistere davvero. (Certo, anche lì capitavano cose senza luce e senza colore, ma erano loro a diventare sempre più invisibili fino a scomparire, non i fantasmi!).
Il fantasma era fuori di sé dalla gioia, al punto che quando, finalmente, arrivò il pittore e, guardandolo, gli chiese con estrema gentilezza: “Siete voi il fantasma venuto dal castello sul mare?”, rispose: “In carne e ossa!”. “Lo vedo, lo vedo!”, sorrise il pittore stringendogli la mano (o qualcosa del genere, non andiamo troppo per il sottile). Allora Amore spiegò al pittore di avere bisogno del suo aiuto per colorare il castello, il mare, il paesino e sopra, anzi sotto, Tutto, le persone: il fantasma avrebbe messo la trasparenza, il pittore il colore… e la trasparenza nel colore e il colore nella trasparenza avrebbero fatto la magia (o qualcosa del genere).
Il pittore voleva evitare di lasciare la sua villa e compiere quel viaggio… Nessun fantasma, infatti, per quanto trasparente, l’avrebbe potuto aiutare a togliersi le sue maschere, se le avesse viste. Certo, questo ve lo sto dicendo io: il pittore non avrebbe mai ammesso di restare nella villa per paura di essere visto: non avrebbe mai ammesso lo struggersi delle ombre, che aveva imparato a chiamare “Tempo”, le vertigini nei giardini, che aveva imparato a chiamare “giochi”, e sopra, anzi sotto, Tutto, non vi avrebbe mai mostrato quel giardino segreto, senza nome… quello, per intenderci, dove non arrivavano le carezze… Ma tanto, dimenticavo, voi non vedete neanche i giardini non-segreti.

Alla fine, quella volta, nonostante Tutto, il pittore si decise a partire: cammina cammina e vola vola, il fantasma e il pittore furono attratti lungo la via da un brillio azzurro nella terra, che spiccava sul grigio generale: “Com’è bello il tuo azzurro! Chi sei?”, chiese il pittore.
“Sono Aci, e il mio Azzurro viene dal Rosso: dopo essere stato ucciso da Polifemo accecato dalla gelosia, ho continuato a far scorrere il mio amore: ora il mio unico desiderio è raggiungere il mare per riabbracciare Galatea.”
“Allora unisciti a noi: stiamo andando verso il castello sul mare che già si comincia a intravedere: il tuo azzurro vivo ci farà da guida”…
Aci disse di sì con naturalezza: conosceva sia Amore sia Morte, sapeva bene chi dei due fosse il più forte, e quindi non aveva paura di nulla. (E questo ve lo dico sempre io perché a lui non piaceva vantarsi).

Cammina cammina, vola vola e scorri scorri, i tre arrivarono finalmente al castello sul mare: Aci inazzurrò il mare candido riabbracciando Galatea, il fantasma Amore (che ogni tanto a qualcuno capita di vedere) illimpidì il cielo, e il pittore consumò tutti i colori per le cose che si trovavano tra il mare e il cielo, castello compreso… per le persone la storia è un po’ più complicata, ma qualche pennellata arrivò anche a loro.
Dopo una giornata di intenso lavoro, quando il rosso cominciava a venire nell’azzurro, Amore disse ai suoi due Amici: “Vediamo chi arriva prima all’orizzonte”… e iniziò a volare; Aci lo seguì subito scorrendo più veloce che poteva, il Pittore si mise a inseguirli di slancio e di corsa… dimenticandosi di non sapere né volare né nuotare.

Non si è mai capito chi vinse quella gara innamorata e indiavolata, e per questo motivo, nel luogo colorato da Aci, da Amore e dal Pittore, che dal quel giorno venne chiamato Aci Castello, il mare e il cielo sembrano Tutt-ora fusi nell’Azzurro, ed è impossibile vedere l’orizzonte… che, del resto, è a sua volta un’illusione…

Il gioco delle quattro carte: un anno di Lolitaca

Boreas
©John William Waterhouse, 1903

“E la volpe e l’istrice, di certo, stanno cercando un luogo, anzi, un giorno la cui misura è sempre.”
P. Buttafuoco, Il dolore pazzo dell’amore

L’otto Marzo 2013 iniziava questo gioco delle quattro carte che è Lolitaca: avendo voluto legare un anno di misurata spericolatezza letteraria (e non solo) a un giorno di banalità dorata di mimosa, mi tocca ora prendere da attimi affastellati d’incontri l’essenza di un racconto…
Tanto per cominciare, ho dovuto allargare il dominio del Silenzio, la distesa dell’Assenza… per ospitare dentro e fuori di me questo mulino a metafora, questa tela di libertà da tessere giorno per giorno, parola per parola, immersa nell’esilio dolceamaro d’ogni distanza, d’ogni esistenza…; una tela che, complici lontane Aracne, Arianna, Penelope…, si fa traccia, scia di poesia, filo di tempo perduto, tra mostri e boati attuali, dal quale si snoda un sentiero…, un sentiero che r-esiste in mezzo ai giardini d’ogni caduta, alla cera d’ogni volo…
La terra (Itaca?) che non ho sotto i piedi, ma nel cuore, la vado segnando e sognando con passo di parola, con fiato di meraviglia e schegge di spirito critico, persino quando, urtando la cronaca e la retorica, il dolore del 23 Maggio è stato sigillato col destino della primavera e coi versi del giardino di Hamdìs.
Certo, potrei ignorare la passione e la misura che viene da un disperato esercizio di consapevolezza, attaccarmi anch’io come una folcloristica nota di colore alle brache del Potere… o come le ostriche, dolorose insegne di prestigio sociale, con le quali la nonna della Sirenetta ornava la coda, felicemente ignara delle fantasticherie fatali consumate ad Aci Trezza… Potrei anch’io lusingare i paternalismi politici, giornalistici, editoriali…, appena riverniciati di fresco dalla Storia, con letterine pedanti e lamentose, e con tutti quei parti indigesti di parole della fauna femminile omologata che piacciono tanto alla fauna maschile omologata: del resto, essendo una giovane (per un altro po’) donna-madre-del Sud (per sempre), becco in pieno il folclore sociale del momento…
Ma, invece, mi “accontento” di estrarre parole (poche) ai confini del silenzio: prima di farmi risucchiare da patinati gorghi retorici opposti e complementari, preservo dall’ombra il dovere dello stupore; prima di lamentarmi del “sistema” (che fa il gioco delle tre carte), vedo la sfida per migliorare me stessa attraverso il solare rigore dell’Arte… del suo gioco che è sempre rinnovata possibilità di uno sguardo inedito sulle cose, apertura interrogativa e innamorata di vita… appesi al filo di un’intima metamorfosi, di una ricerca che custodisca lo scrigno di una realtà onestamente paradossale e autenticamente appassionata, e che faccia annegare il narcisismo del dolore e l’ostentazione della gioia in un guizzo d’universale.
Al “sistema”, ai “padri”, ai “padroni”, e a tutto quello che vuoi tu, oppongo la gratuita resistenza est-etica ed esistenziale del fare le cose per Amore.
Tanto per cominciare, del non cercare un “posto”, ma un “luogo”; non una “data”, ma un “giorno”; del non voler diventare “qualcuno”, ma (cosa molto più difficile) “nessuno”; del non voler “insegnare”, ma (cosa molto più difficile) “imparare”.
Tanto per cominciare, ho dovuto allargare il dominio del Silenzio, la distesa dell’Assenza… affinché Tu abbia la possibilità di scegliere, ogni volta che passi di qui, se essere uno Sconosciuto o un Fratello.

Lo straniero, il teschio e il prigioniero

Castello di Aci Castello
©Erika Weinmann, 1985

Mi ero spinto in quel piccolo paesino così, un po’ per caso e un po’ per la voglia di far qualcosa di alternativo, in quella cupa ma afosa domenica di Aprile. Con la mia utilitaria dalla freccia mal funzionante, in preda ad un impulso di esaltante libertà e indipendenza, girai più volte tra i vicoli e le stradine rifiutandomi persino di rispettare i segnali stradali! Trasportato da tutto ciò, decisi di lasciare la macchina in un vicolo cieco, non curante della gente che seduta al bar di fronte mi fissava: – In fondo- mi dissi – potrei biascicare qualche parola in spagnolo e farmi passare per un turista inesperto!
Sceso dalla macchina, quello che vidi fu un immenso spettacolo storico-naturale: un enorme castello che si affacciava sullo splendido mare azzurro tipico della mia Sicilia, quella stessa Sicilia che in quell’ultimo periodo mi dava forti dispiaceri e che, invece, in quella insolita mattina, era riuscita a stupirmi a sorpresa ancora una volta.

Proprio mentre fissavo inebetito tutto questo, una voce alle mie spalle sussurrò dolcemente, ma non per questo non facendomi trasalire: – Questo castello si erge su una rupe esito di un eruzione sottomarina che risale a milioni di anni prima della formazione dell’Etna!
Fu così che feci la conoscenza del guardiano del castello, un uomo minuto dall’occhialino tondo e dall’animo del poeta, la qual cosa mi fu subito chiara non appena, facendomi strada tra gli scalini, come captando il mio stato interiore, mi disse: – Una mela non ha rimorsi![1] Vada per il castello, troverà le risposte che cerca!

Ringraziai e, pensando a chissà quanta gente era stata rifilata questa stessa frase per incrementare l’entusiasmo della visita, iniziai a girovagare nelle terrazze immense, stupito dalla vista celestiale che il posto mi offriva. Da una di queste riuscii persino a scorgere l’isoletta proprio lì davanti e mi chiesi se fosse ancora accessibile. Dopo aver fatto qualche foto, tornai indietro e, mentre mi avviavo all’uscita, mi resi conto che c’era un’ultima stanza da visitare. Scesi quindi qualche scalino e, passando sotto un piccolo porticato, mi ritrovai dentro a un’area che, diversamente dalle altre, ospitava delle teche di vetro che custodivano reperti archeologici probabilmente risalenti all’epoca primitiva. Tra questi vi erano anche alcuni teschi di primati, non ne avevo mai visti prima e la cosa mi affascinò parecchio: in fondo visitare quest’ultima stanza non era stata affatto una perdita di tempo. Fissavo interessato, quasi alitando sul vetro, quando improvvisamente un teschio, tra l’altro diverso dagli altri, iniziò a parlare raccontando una romantica e triste storia: la storia del prigioniero del castello, un uomo che in epoca lontana, era stato tenuto in catene nelle segrete alle quali si poteva accedere solo tramite la botola al piano superiore, la stessa botola che adesso il custode chiamava “pozzo dei desideri”.[2]

Il teschio raccontò che l’uomo era stato severamente punito per aver cacciato selvaggina appartenente al Signore del posto, il quale aveva deciso che, visto che gli era stato rubato un pezzetto di cielo, la pena sarebbe stata la medesima: l’uomo sarebbe stato imprigionato dentro una botola da dove il cielo era visibile solo per una piccolissima porzione, così da poter ricordare di cosa era stato privato e di chi fosse dunque il potere.
Ed infatti il prigioniero passava minuti, ore, giorni interi a pensare a tutto ciò che aveva e che aveva perso, alla sua terra, alla sua vita e in particolare pensava a Teresa, la splendida Teresa che gli aveva rubato il cuore e il cui battito di ciglia l’aveva fatto innamorare. Ed era proprio quest’immagine suadente che il battito di ali di quella beccaccia gli aveva evocato, e ancora questo il motivo che lo aveva spinto a catturarla, non dunque per ucciderla, ma semplicemente per tenerla con lui, per sentirsi vicino alla sua amata.
Così lui pensava e ripensava finché un giorno, dalla grata sopra la sua testa, cadde, probabilmente portato dal vento quasi per magia, un piccolo pezzetto di cenere nera, forse proveniente dal grande Etna ancora in eruzione.
Quella sì che fu per il povero sventurato una benedizione, perché poté usarlo per scrivere sulle pareti della cella, divenuta ormai sua triste dimora, una splendida poesia per l’amata, che la sera, al sorgere della luna, amava invocare ad alta voce, sperando che un flebile alito di vento potesse sussurrarla all’ orecchio di Teresa prima di prender sonno… chissà che in codesto modo fosse più facile incontrarsi nei sogni.
Ciò purtroppo non accadde, gli anni passarono lenti ed inesorabili finché il prigioniero si arrese al suo destino e si lasciò  morire. Questa storia era estremamente triste e io, non curante dell’assurdità di ciò che stava accadendo, preso dall’enfasi del racconto, lo dissi al teschio quasi insultandolo per aver incupito ancora di più la mia giornata! Lui, dal canto suo, non sembrò rimanere male per questa mia reazione, né tanto meno sembrò a sua volta essersi arrabbiato. Fece piuttosto un sorriso amaro e disse:

“O furisteru câ vinisti di luntanu,
picchì ha’ renniri ancora chiù pisanti lu me distinu amaru?
Non vidi chi d’ ’i me carni ristau sulu ‘na crozza vacanti?
Si ’u destinu ti purtau ccà supra un mutivu ci saravi!
Fammi ’nu favuri!
Ccussì câ me anima possa raggiungiri ’u Criaturi!
Va’ ‘ntâ ’dda isuledda e cunta i me versi sutta a l’àlbiru supra â cullina,
a ’dda cruci ‘ntâ terra cà vasa di tant’anni ’u me Cori!”
[3]

Disse questo e poi più nulla! Dopo qualche istante di silenzio, fu come se improvvisamente tornai in me e la prima reazione fu quella di stropicciarmi gli occhi e asciugarmi la fronte. Il caldo mi aveva giocato un brutto scherzo in quello strano castello, sicuramente mi ero lasciato suggestionare dalle parole del custode, quindi bevvi un sorso d’acqua e ridiscesi.

Seduto nella panchina della piazza, fissando la statua della madre, le parole che avevo immaginato di udire mi ritornavano alla mente come un disco rotto senza che riuscissi a liberarmene… in fondo, non avrei perso nulla nel recarmi su quell’isola, anche solo per esplorarla o per dimostrare a me stesso che sicuramente non avrei trovato nulla.
Mi feci dare un insolito passaggio da un vecchio pescatore attraccato al porticciolo, dicendogli banalmente che avevo da fare delle foto per un articolo e, una volta affondati i piedi sulla sabbia, iniziai il mio cammino sull’isola, forse anche un po’ contrariato dalla sensazione di inebriante curiosità, la stessa che mi aveva portato fin lì. Camminai per un lungo tratto finché mi resi conto di essere un po’ più in alto rispetto al livello del mare, mi guardai intorno e, a qualche metro da me, vi era un salice che muoveva le lunghe fronde a destra e a sinistra, come accarezzando qualcosa. Mi avvicinai piano piano e sotto la vidi: era proprio la croce di cui parlava il teschio, una croce di legno scuro affondata nella terra, priva di qualunque segno o scritta. Preso da un irresistibile impulso, come in forma di rispetto, mi inginocchiai lì accanto e, seguendo ancora una volta il mio istinto, ripetei la dolce poesia del prigioniero verso dopo verso e, proprio quando stavo per terminare, sentii di nuovo una voce, stavolta femminile ma forse più lontana, che mi disse: – Non importa quanto sarà lunga l’attesa, segui sempre il tuo cuore!

Ancora oggi, quando penso a quello che avvenne quel giorno, mi sento invadere da un senso di tiepido e avvolgente mistero: varie le domande che mi sono posto, i dubbi, le congetture… Ma adesso, seduto nella mia poltrona comoda e accogliente, mentre seguo la rotta delle rughe che solcano le mie mani, mi piace pensare che forse sono stato scelto come l’ultimo testimone di questa fantastica storia perché sarei stato in grado di farne tesoro, scelto dunque come ultimo uditore del prigioniero che ha affidato proprio a me la sua più intima preghiera: quella di consegnare a Teresa il suo dolce messaggio d’amore ispirato dal cielo sopra la città del castello.


[1] Verso del poeta-custode Davide Aricò.

[2] Questa storia trae libera ispirazione dal racconto che viene effettivamente narrato dal custode a chi si reca in visita al castello di Aci Castello.

[3] Ci si scusa per eventuali errori di trascrizione del dialetto, ma il nostro povero straniero ha riferito meglio che ha potuto quel che udì quel giorno lontano. Inoltre, per chi è ancora più straniero dello straniero, riportiamo le parole del teschio in italiano: “Oh straniero che sei venuto da lontano, perché vuoi rendere ancora più pesante il mio destino amaro? Non vedi che del mio corpo rimane solo un cranio vuoto? Se il destino ti ha portato quassù un motivo ci sarà! Fammi un favore, in modo che la mia anima possa raggiungere il Creatore! Va’ in quell’isoletta e declama i miei versi sotto l’albero in cima alla collina, a quella croce nella terra che bacia da tanti anni il mio Cuore!”

La notte dei Malavoglia

La terra trema
La terra trema (1948) di L. Visconti

Ombre
chinate
sull’abisso

affanno
impietrito
della riva

quando il vortice
schianta
gli scogli

e la Puddara[1]

 


[1] Stella polare (termine dialettale usato da Verga).

 

 

Nero Malavoglia

Nero notte, nero mare, nero sciara, nero abisso, nero cuore, nero morte, nero di stelle capovolte, come barche o speranze.