L’amore parla per enigmi

L'enigma senza fine
©Salvador Dalì, 1938

L’amore parla per enigmi
e il tempo degli amanti
passa incerto nel tentativo
di scioglierli. Ogni sguardo,
anche se mancato, è una sciarada,
un rebus, una sillaba posposta,
come da un dio geloso
di un disumano segreto;
ogni appuntamento
può essere un inganno,
un’assenza rivelare l’ignoto.
Anch’io cerco invano
di interpretarne i segni,
la loro apparente poligamia,
il loro a tutto legarsi
per confondere,
e resto annichilito
nel risolverli in un volto.

 

 

Assenza Essenza

In poesia il mistero dell’amore e quello della parola coincidono… in una ricerca e in un’eco continua di senso che diviene identikit di fallimentare dolcezza e danza di segni che attingono vita, inseguendo a vuoto una “totalità” da stralci d’apparenza: forse, nell’assenza di “soluzioni”, sta l’essenza dell’amore. (M.R.I.)

Lettera a Frida

Le due Frida
©Frida Kahlo, 1939

E c’è il tempo del dolore, cara Frida, che neppure io avevo atteso. Quando arriva ha un passo deciso e pesante, non bussa alla tua porta, la spalanca con violenza e irrompe con tutta la sua brutalità. E possiede un suo scandire, un suo procedere gommato. La sua data di nascita è morte per noi, per i nostri giorni, per quelle ore alle quali non avevamo dato il giusto peso. Il tempo del dolore squarcia la pelle, la fa a brandelli, è così forte da far tremare tutti i nostri maledettissimi organi vitali. Ti pone tra le mani il cuore e le sue arterie, ti trafigge i polmoni, ti amputa gli arti. E poi arrivano i chiodi, sì perché questo tempo sa munirsi di oggetti di tortura aberranti, che ti infilzano ovunque. I chiodi sono un corredo al dolore, non c’è immagine più vera che possa descrivere la miseria in cui si è costretti a vivere quando questo nuovo tempo spalanca le tue porte. E forse è anche angoscia come sentimento del possibile, è baratro, è vertigine. Un nuovo che attanaglia i meandri più reconditi della propria anima. Ma Frida, cos’è l’anima? Se non un “nulla” etereo… cosa ha a che fare col dolore nella sua assoluta fisicità? Perché la sofferenza scuote il silenzio delle nostre paure, mette a dura prova la nostra ratio e il logos di cui ci ha muniti un Dio buono? E tu sei nata due volte e la seconda sei venuta alla luce dal tempo del tuo dolore.
In te lo scandire angoscioso del possibile non ha mai fatto posto al rumoroso e banale tic tac delle lancette umane. Hai saputo trasformare la tua afflizione in bellezza. Hai appeso i tuoi vestiti tra due mondi lontani, indossando con sicurezza i colori delle tue origini, portando in giro il tuo corpo stretto dal tehuana. Hai abbracciato fiera i tuoi gessi, armature candide che hai rispettato e celebrato come una seconda pelle. Forse la sofferenza in itinere può essere lenita con l’amore, sentimento che hai destinato con enfasi irrazionale e unica al tuo “panzon” Diego Rivera. Tra vino, pennelli e farfalle sei stata una donna libera da tutto, meno che da te stessa. Hai perso i tuoi figli tra le tele insanguinate delle tue opere, urlando al mondo il tempo della tua angoscia. E poi quella smisurata “attrazione” per la falce e martello, scelta di vita, cesura insanabile contro la mostruosità del capitalismo imperante. Hai saputo raccontarti al mondo, in maniera irruenta ed impertinente hai voluto gli sguardi tutti per te, non per sano egocentrismo o vanità, ma per imporre coi tuoi colori una carica dirompente.
E il tempo del tuo dolore non si è ancora concluso e parla alle nostre sequenze di grigi, alle copertine opache con le quali apriamo le nostre giornate sperando di sopportarle. I tuoi fiori, le tue collane di spine, i tuoi teschi dialogano con le domande più profonde dell’uomo che sceglie di affacciarsi dalle finestre della propria teca cranica ricongiungendosi con le opere essoteriche di Aristotele. Siamo tutti Priamo. Ma esiste un movimento vorticoso che sa ricongiungersi con se stesso e con ogni stortura e trepidazione che l’animo umano produce. Il perché si impone in tutta la sua drammaticità e noi non vogliamo arrenderci all’ovvietà di quel motto tanto antico: “Chi ne nasce ne muore”… perché non è così che vorremmo andasse a finire. E c’è il tempo del dolore, cara Frida, a cui neppure la morte può dare consolazione.

Il gioco delle quattro carte: un anno di Lolitaca

Boreas
©John William Waterhouse, 1903

“E la volpe e l’istrice, di certo, stanno cercando un luogo, anzi, un giorno la cui misura è sempre.”
P. Buttafuoco, Il dolore pazzo dell’amore

L’otto Marzo 2013 iniziava questo gioco delle quattro carte che è Lolitaca: avendo voluto legare un anno di misurata spericolatezza letteraria (e non solo) a un giorno di banalità dorata di mimosa, mi tocca ora prendere da attimi affastellati d’incontri l’essenza di un racconto…
Tanto per cominciare, ho dovuto allargare il dominio del Silenzio, la distesa dell’Assenza… per ospitare dentro e fuori di me questo mulino a metafora, questa tela di libertà da tessere giorno per giorno, parola per parola, immersa nell’esilio dolceamaro d’ogni distanza, d’ogni esistenza…; una tela che, complici lontane Aracne, Arianna, Penelope…, si fa traccia, scia di poesia, filo di tempo perduto, tra mostri e boati attuali, dal quale si snoda un sentiero…, un sentiero che r-esiste in mezzo ai giardini d’ogni caduta, alla cera d’ogni volo…
La terra (Itaca?) che non ho sotto i piedi, ma nel cuore, la vado segnando e sognando con passo di parola, con fiato di meraviglia e schegge di spirito critico, persino quando, urtando la cronaca e la retorica, il dolore del 23 Maggio è stato sigillato col destino della primavera e coi versi del giardino di Hamdìs.
Certo, potrei ignorare la passione e la misura che viene da un disperato esercizio di consapevolezza, attaccarmi anch’io come una folcloristica nota di colore alle brache del Potere… o come le ostriche, dolorose insegne di prestigio sociale, con le quali la nonna della Sirenetta ornava la coda, felicemente ignara delle fantasticherie fatali consumate ad Aci Trezza… Potrei anch’io lusingare i paternalismi politici, giornalistici, editoriali…, appena riverniciati di fresco dalla Storia, con letterine pedanti e lamentose, e con tutti quei parti indigesti di parole della fauna femminile omologata che piacciono tanto alla fauna maschile omologata: del resto, essendo una giovane (per un altro po’) donna-madre-del Sud (per sempre), becco in pieno il folclore sociale del momento…
Ma, invece, mi “accontento” di estrarre parole (poche) ai confini del silenzio: prima di farmi risucchiare da patinati gorghi retorici opposti e complementari, preservo dall’ombra il dovere dello stupore; prima di lamentarmi del “sistema” (che fa il gioco delle tre carte), vedo la sfida per migliorare me stessa attraverso il solare rigore dell’Arte… del suo gioco che è sempre rinnovata possibilità di uno sguardo inedito sulle cose, apertura interrogativa e innamorata di vita… appesi al filo di un’intima metamorfosi, di una ricerca che custodisca lo scrigno di una realtà onestamente paradossale e autenticamente appassionata, e che faccia annegare il narcisismo del dolore e l’ostentazione della gioia in un guizzo d’universale.
Al “sistema”, ai “padri”, ai “padroni”, e a tutto quello che vuoi tu, oppongo la gratuita resistenza est-etica ed esistenziale del fare le cose per Amore.
Tanto per cominciare, del non cercare un “posto”, ma un “luogo”; non una “data”, ma un “giorno”; del non voler diventare “qualcuno”, ma (cosa molto più difficile) “nessuno”; del non voler “insegnare”, ma (cosa molto più difficile) “imparare”.
Tanto per cominciare, ho dovuto allargare il dominio del Silenzio, la distesa dell’Assenza… affinché Tu abbia la possibilità di scegliere, ogni volta che passi di qui, se essere uno Sconosciuto o un Fratello.