Lettera a Frida

Le due Frida
©Frida Kahlo, 1939

E c’è il tempo del dolore, cara Frida, che neppure io avevo atteso. Quando arriva ha un passo deciso e pesante, non bussa alla tua porta, la spalanca con violenza e irrompe con tutta la sua brutalità. E possiede un suo scandire, un suo procedere gommato. La sua data di nascita è morte per noi, per i nostri giorni, per quelle ore alle quali non avevamo dato il giusto peso. Il tempo del dolore squarcia la pelle, la fa a brandelli, è così forte da far tremare tutti i nostri maledettissimi organi vitali. Ti pone tra le mani il cuore e le sue arterie, ti trafigge i polmoni, ti amputa gli arti. E poi arrivano i chiodi, sì perché questo tempo sa munirsi di oggetti di tortura aberranti, che ti infilzano ovunque. I chiodi sono un corredo al dolore, non c’è immagine più vera che possa descrivere la miseria in cui si è costretti a vivere quando questo nuovo tempo spalanca le tue porte. E forse è anche angoscia come sentimento del possibile, è baratro, è vertigine. Un nuovo che attanaglia i meandri più reconditi della propria anima. Ma Frida, cos’è l’anima? Se non un “nulla” etereo… cosa ha a che fare col dolore nella sua assoluta fisicità? Perché la sofferenza scuote il silenzio delle nostre paure, mette a dura prova la nostra ratio e il logos di cui ci ha muniti un Dio buono? E tu sei nata due volte e la seconda sei venuta alla luce dal tempo del tuo dolore.
In te lo scandire angoscioso del possibile non ha mai fatto posto al rumoroso e banale tic tac delle lancette umane. Hai saputo trasformare la tua afflizione in bellezza. Hai appeso i tuoi vestiti tra due mondi lontani, indossando con sicurezza i colori delle tue origini, portando in giro il tuo corpo stretto dal tehuana. Hai abbracciato fiera i tuoi gessi, armature candide che hai rispettato e celebrato come una seconda pelle. Forse la sofferenza in itinere può essere lenita con l’amore, sentimento che hai destinato con enfasi irrazionale e unica al tuo “panzon” Diego Rivera. Tra vino, pennelli e farfalle sei stata una donna libera da tutto, meno che da te stessa. Hai perso i tuoi figli tra le tele insanguinate delle tue opere, urlando al mondo il tempo della tua angoscia. E poi quella smisurata “attrazione” per la falce e martello, scelta di vita, cesura insanabile contro la mostruosità del capitalismo imperante. Hai saputo raccontarti al mondo, in maniera irruenta ed impertinente hai voluto gli sguardi tutti per te, non per sano egocentrismo o vanità, ma per imporre coi tuoi colori una carica dirompente.
E il tempo del tuo dolore non si è ancora concluso e parla alle nostre sequenze di grigi, alle copertine opache con le quali apriamo le nostre giornate sperando di sopportarle. I tuoi fiori, le tue collane di spine, i tuoi teschi dialogano con le domande più profonde dell’uomo che sceglie di affacciarsi dalle finestre della propria teca cranica ricongiungendosi con le opere essoteriche di Aristotele. Siamo tutti Priamo. Ma esiste un movimento vorticoso che sa ricongiungersi con se stesso e con ogni stortura e trepidazione che l’animo umano produce. Il perché si impone in tutta la sua drammaticità e noi non vogliamo arrenderci all’ovvietà di quel motto tanto antico: “Chi ne nasce ne muore”… perché non è così che vorremmo andasse a finire. E c’è il tempo del dolore, cara Frida, a cui neppure la morte può dare consolazione.