“La Via Lattea” di Diego Caiazzo: costellazioni di desideri tra cielo e carne

La Via LatteaTutti le guardano, pochi le vedono… Le stelle e le donne. E ci voleva la potente e tenera metafora del titolo del libro di Diego Caiazzo, La Via Lattea (Lupi Editore, Sulmona 2016), a smuovere mezzo secolo di vita e di storia, ad aprire la serratura di giorni sorpresi tra una metrica microscopica materna e la danza galattica degli Eventi.[1] L’invito dell’Autore al ballo della Storia (e della sua storia) è garbato e travolgente: ci guida tra spartiti e spaccati intimi ed enciclopedici di cose con la sicurezza di chi si è più volte perso e ha fatto di questa sua sublime sconfitta di fronte al mondo un’arte per poterlo rimappare.

Una rimappatura poetica, tra infinitamente piccolo[2] e infinitamente grande[3], tra selvagge vicinanze (fusioni) e sterminate distanze di mistero (scissioni) alla base della stessa vita; tra sensualità estatica, preghiera materica, ironia chirurgica, le tessere liriche de La Via Lattea vanno componendo un discorso-mosaico sul de-siderium… “Sentire la mancanza delle stelle”: Diego Caiazzo declina poeticamente questa nostalgia, che poi coincide con la nostalgia del corpo (della madre, dell’amante, soprattutto del proprio nel corpo altrui).[4] La parola si protende allora a esplorare e ricreare, attraverso scale di versi e tirando in ballo vari personaggi storici, il gioco di desiderio alla base della vita e, quindi, della scienza, della religione, degli scacchi, della musica, della guerra e dell’amore. Non c’è, del resto, “oggetto” di studium più vicino e più lontano, minimo e  profondissimo, intimo ed estraneo, potente e vulnerabile, prossimo e irraggiungibile come il corpo dell’Altro.

La scoperta poetica di Caiazzo consiste così in una realtà che, anche quando si gioca a dipanarla come litania prosaica con le sue straniate “istruzioni per l’uso”, perde la sua “gravità” e si sposta, con vigorosa levità, tra i tasti della Storia e delle storie. Proprio questa “toccata” nel prosaico e “fuga” nel poetico fa sì che l’amore e il dolore non siano mai fantasmi esangui da manuale, ma spicchino come concrete tessere senza tempo del gioco di essere umani. Al lettore, gentilmente invitato a fare la prossima mossa, arrivano con la loro ipotesi d’umoristica universalità… “Si sa,/ scrivere è un tentativo/ di sopravvivere a sé stessi”[5]
Come andrà il tentativo? La risposta sta nel desiderium del lettore.

[1] “Quando sono nato io/ il 25 ottobre del 1955/ il Papa era Pio XII/ […] in quel momento/ non conoscevo altro/ che il dolore/ e la felicità/ e la stanchezza/ e il sudore/ e l’odore/ e il calore/ e l’amore/ di mia madre”. D. Caiazzo, La Via Lattea, Lupi Editore, Sulmona 2016, p.19.

[2] “[…] e davvero la vita può cambiare/ per un’inezia/ una parola non detta/ un soffio di vento”. Ivi, p. 60.

[3] “950 anni fa nell’anno 1054/ in un cielo indicibilmente remoto/ esplose una stella gigantesca”. Ivi, p. 26.

[4]  “[…] tutto quello che sentiamo/ ora è il nostro odore/ trasferitosi nell’altro corpo”. Ivi, p. 21.

[5] Ivi, p. 58.

La stanza di Virginia

Virginia Woolf
©G. C. Beresford, 1902

Cara Virginia,
ci siamo incontrate nel punto di sutura tra dolore e gioia, dove il delicato peso del pensiero irradia pulviscolo di vita, dove la matassa distratta dei giorni si fa concentrazione inesplicabile d’armonia, dove il rito delle cose si accende… e ombre si rompono dentro passi.
Difficile dire se fu dialogo sororale o fuga di vele… se nella geometria deliziosa e dannata del giorno le pagine riempiono le mani come mazzi di rose, se dalla stanza come un sottile miracolo scorre linfa di secoli, se la danza del sole accompagna il fiorire dei libri…
Tanto più profondo è il baratro quanto più diviene lucido lo specchio… il passo segnato da ferite acquista un’impalpabile leggerezza di spume e le parole si aprono come scrigni di rifrangenze. Aria, polvere, colore… La vita che sembrava contratta si rivela in una pausa di vento, fuggono le forme in fiati di frase e il giorno, con la sua festa malinconica, mormora mezze meraviglie e pianta misteri di felicità. La morte piega lo stelo e frena l’onda, rimandando la sua vittoria di tempesta… ora alita un’attesa, si tesse una tela.
Nastri d’ore, gemme di momenti… Conosci il segreto di quell’incanto dolente che chiamiamo “vita” e percorriamo, decise e fragili? Conosci lo stupore che bagna le rose… e la luce? Le rive ritagliate da ricordo, le corse dei giorni e le isole dei secondi? La pagina rivela le aritmie del tempo… tinte tagli gomitoli di anni… srotolando il sentiero degli sbagli affiora una striatura d’infinito, un’argentea ironia. Voglio ora sostare nel battito della tua visione… quotidiana e magica, tersa e abissale, universale e naturalmente femminile… come la fatica di essere… “donna” e “scrittrice”.
Difficile spiegare come le voci dentro i libri accompagnino, e a volte persino sostengano, il dondolio delle ore, il tumulto del dolore, radici invisibili che ci slanciano verso la Bellezza. Dentro i passi di oggi si muovono i tuoi astri… la vita ri-appare dalle spume dei tuoi sguardi… l’amarezza si fa sorpresa, l’angoscia epifania.
Hai detto la sublime meschinità dello stare al mondo cingendo di colori l’apparire delle cose, annegando le impressioni nel fondo buio della pagina; morendo una volta e vivendo sempre.
Nell’onda che sigilla la tua stella, nell’eco che dall’onda… rigenera la parola.

Lettera a Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre

Simone, SartreCara Simone, caro Jean-Paul,
ancora una volta assieme, anche nel mio tentativo arrogante di cercare un dia-logos col vostro pensiero. Non riesco a scindere e allo stesso tempo a non-scindere la vostra irripetibile unicità, non un gioco dialettico, ma un esercizio di ragione. Vi penso assieme, legati dal filo rosso della complicità. Ecco cosa scrivevi, Sartre, al tuo grande amore: «Sognare ognuno per sé, scrivere l’uno per l’altra», «La mia vita non appartiene a me solo, voi siete sempre me, l’essere stesso del mio essere, il cuore del mio cuore». E ancora: «Non posso essere separato da voi, la mia vita non appartiene soltanto a me, voi siete sempre me stesso e non si può essere più uniti di quello che siamo voi ed io». Il “Castoro”, come amavi chiamare la tua Simone, è la donna inevitabile e l’amore necessario. Tra voi c’è stato un patto di fedeltà, un legame limpido e misterioso: «Sarà così e resterà nella mia vita: avrò amato senza il passionale e il meraviglioso, ma dal di dentro».

La libertà intesa così come la intendevi tu, caro Sartre, porta in nuce qualcosa di meravigliosamente tragico. Avanza con la sua forza un’egoicità che non lascia rivoli di speranza, che trascina l’uomo in un inferno terreno e tutto materiale in cui gli attori sono gli altri in rapporto a noi. Si impone un’inseità aberrante, ma tremendamente vera. Caro Sartre, sono cresciuta provando la tua stessa nausea, riscaldandomi al fuoco di un camino nemico, sentendomi inesorabilmente una passione inutile. Pensare di bastare a sé, nutrirsi della propria libertà come certezza e non come mera possibilità, palesa un amore smisurato per la vita, la stessa che ci procura una totale alienazione. E quanti scacchi, caro Sartre, nel tentare di superare i limiti della nostra razionalità…E misurarsi con l’altro è sempre un atto belligerante, anche quando uno sguardo si alza vestito di bianco ed invia messaggi di pace. C’è guerra nel nostro essere con l’altro, sempre. Anche quando arriva il senso di responsabilità a catturare l’alterità, questa prigionia fomenta il nostro voler essere padroni. Costringere l’altro tra le maglie strette di un amore, ritagliare spazi, luoghi e parole. Cercare invano una mediazione tra l’essere in sé e l’essere per l’altro, scoprendosi come nulla, come angoscia.

Di che colore è l’amore che legava e lega te a lui, cara Simone? (Non riesco a mettere le stesse distanze come con Sartre. Perché tu sei stata più di lui capace di tenerle assieme queste vostre unicità). Forse rosso come le bandiere comuniste oppure nero come il lutto di un tradimento? Magari possiede le sfumature tranquille del blu come una finestra sul mare che nasconde le terrecotte appese ad un filo su pareti bianche come gingilli estivi. Che tonalità possono narrare gli amori contingenti che come giochi si susseguivano senza sosta tra il necessario e l’assolutamente effimero? Ci può essere fedeltà nel tradimento? La disillusione appartiene ad un atteggiamento borghese farcito dal perbenismo dell’educazione e dalla “morale degli schiavi”? Farsi catturare dalla routine e dai vezzi della coppia comunemente intesa avrebbe sporcato la bellezza dei vostri quadri, delle vostre lune asimmetriche stagliate come solchi tra le linee del vostro logos. “To oti” (“questo è”), avrebbe suggerito Aristotele, mentre con dedizione assoluta, cara Simone, non ti allontanavi di un passo dalla sua anima, ma lasciavi spazi nel letto del tuo grande amore, occupandone altri solo per diletto. E c’era il ’68 e poi il ’77, cerimonie di addii da festeggiare, vini da bere, pensieri da rendere al mondo con tutta la forza e l’originalità politica che da sempre vi ha contraddistinti.

Cos’è un bacio di fronte alla possibilità della rivoluzione? Che importanza può avere non aversi, ma aversi per sempre oltre la caducità mondana? Essere l’uno per l’altra e allo stesso tempo non essere che per sé, perché questo presuppone un amore necessario e vero. Non l’inferno della normalità, ma lo straordinario che va oltre ogni convenzione sociale, oltre ogni regola del buon costume vomitevole ed arrogante, oltre la passione. E così siete guariti da voi e dal mondo. Esiste qualcosa di struggente nel ritrovarsi nel necessario e allo stesso tempo sganciare le zavorre del proprio sentire dai simboli, dagli oggetti, dalle clessidre ipnotiche. Esiste un che di magico nel prendere le distanze da un qualcosa che avevi considerato appassionante. Un’esperienza sublime che supera di gran lunga il convincersi che il contingente possa servirci come l’aria. Accettare insomma l’egoicità come esperienza mistica e irripetibile. E tornare a scambiare, come in un gioco, l’orrendo per il bello. È una possibilità del pensiero, come tempo da dedicare al proprio sé per imparare a disprezzare ciò che si crede amore, per relegarlo nel dovuto disprezzo, salvo poi utilizzare con lucidità la sua declinazione di imprescindibilità per provare ad essere felici. E non esiste nulla di più sensuale che il poter scegliere gli amanti e le amanti al proprio amore, un atto di umiltà che fa scendere il paradiso agli inferi. La potenza di Dio, tra gli anfratti infernali del tradimento, non come possibilità, ma come legge terrena che tutto riorganizza in funzione dell’accidente, tenendo però lo sguardo fisso al motore immobile che tutto muove come in una danza di luce, pur rimanendo nel suo egoismo a contemplare sé soltanto.
Vi abbraccio, compagni di un tempo che fu…, immaginandovi all’inferno a dar lotta alle fiamme.

“Una Storia Sbagliata”: lo spettacolo “giusto” di G.G. Boncoddo

Una Storia SbagliataCome si trasforma Una Storia Sbagliata nello spettacolo “giusto”?
Hanno risposto l’autore e regista Giovanni Gionni Boncoddo e gli attori della Nuova Compagnia dei Giovani con lo spettacolo andato in scena il 10 Maggio scorso presso il Teatro Annibale Maria di Francia di Messina. O, meglio, hanno fatto le domande “giuste”: l’indagine dei commissari Volontè e Mecca intorno all’omicidio di Maria Tedesco è, infatti, ricerca di verità, ma, come sempre avviene nella “finzione” dell’Arte, la verità, e quindi la giustizia, che viene cercata non coincide col nome del colpevole, ma è attraversamento lacerante di sfumature emotive che vengono a galla attraverso il gioco di specchi dei personaggi, la raffinata maieutica dei dialoghi; è discesa in inferni interiori che vivono sulla scena la loro consistenza d’ombra… È, a prescindere dalla “soluzione” del caso, uno schiaffo alla banalità della nostra società, all’impossibilità di “incontrarsi” in modo significativo e rispettoso, all’impossibilità di dare corpo al sogno: allora, un racconto di sesso, amore e morte, diviene un accamparsi coraggioso sull’orlo di un abisso, circumnavigazione e penetrazione del caos della protagonista, la cui identità riemerge, dopo un unico intenso monologo, dalle voci dei vari testimoni; il “non sapere” dell’indagine (della poesia e della vita) fecondo, anche se maledetto, recupero di “prospettiva” contrapposto all’appiattimento del pensiero e della parola, non meno opprimente nei giorni del lampo della tragedia, della quale è la causa più profonda.

I dialoghi sono dunque riverberi di una verità emotivamente complessa e scomoda, quella del rapporto malato tra un padre e sua figlia, che si lega e intreccia ai vissuti e alle inquietudini dei vari personaggi… in particolare del commissario Volontè, vicino di casa della ragazza uccisa e poi violentata (come viene ripetuto ossessivamente a scandire lo scavo doloroso del male), chiamato prima a “interrogarsi” sul proprio sentimento (come fa ogni innamorato), e dopo a DOVER interrogare ancora se stesso, mentre interroga i testimoni, nello strazio della perdita. Ma quanto il corpo di Maria è stato ucciso e offeso, tanto le domande indecifrabili delle sue emozioni, i gusci fragili dei suoi sogni, sono vivi e, forse, solo ora possono “riposare” nella verità che lei stessa non sapeva, non poteva, pronunciare su di sé.
Dare, infine, nome al colpevole e, ancora di più, senso all’assenza di Maria, significa tendere al massimo una corda di consapevolezza tra sogno e provocazione, tra l’infantile e il sensuale; estrarre dal caos struggente della sua vita, attraverso gli scavi visionari e reali delle parole, quella radice “cosmica” che fa dire nel corso dello spettacolo che il caso non esiste

Estrarre dal caos quella catarsi, attraverso la chirurgia a cuore aperto del teatro, che scioglie in riscatto armonico le note dannate dell’esistenza, trasforma il temporale della tenerezza impossibile nella grazia densa del distacco.
E, anche se gli uomini fossero caso e caos, l’Arte teatrale rinnova la regia di senso di questa umanità per ricordare che, dal fango della violenza e della mediocrità, e oltre le care ombre dell’impossibile e dell’invisibile, è possibile uscire vivi con un frammento di verità, uno sguardo più consapevole, una nuova, più “solare”, domanda.

Lettera a Frida

Le due Frida
©Frida Kahlo, 1939

E c’è il tempo del dolore, cara Frida, che neppure io avevo atteso. Quando arriva ha un passo deciso e pesante, non bussa alla tua porta, la spalanca con violenza e irrompe con tutta la sua brutalità. E possiede un suo scandire, un suo procedere gommato. La sua data di nascita è morte per noi, per i nostri giorni, per quelle ore alle quali non avevamo dato il giusto peso. Il tempo del dolore squarcia la pelle, la fa a brandelli, è così forte da far tremare tutti i nostri maledettissimi organi vitali. Ti pone tra le mani il cuore e le sue arterie, ti trafigge i polmoni, ti amputa gli arti. E poi arrivano i chiodi, sì perché questo tempo sa munirsi di oggetti di tortura aberranti, che ti infilzano ovunque. I chiodi sono un corredo al dolore, non c’è immagine più vera che possa descrivere la miseria in cui si è costretti a vivere quando questo nuovo tempo spalanca le tue porte. E forse è anche angoscia come sentimento del possibile, è baratro, è vertigine. Un nuovo che attanaglia i meandri più reconditi della propria anima. Ma Frida, cos’è l’anima? Se non un “nulla” etereo… cosa ha a che fare col dolore nella sua assoluta fisicità? Perché la sofferenza scuote il silenzio delle nostre paure, mette a dura prova la nostra ratio e il logos di cui ci ha muniti un Dio buono? E tu sei nata due volte e la seconda sei venuta alla luce dal tempo del tuo dolore.
In te lo scandire angoscioso del possibile non ha mai fatto posto al rumoroso e banale tic tac delle lancette umane. Hai saputo trasformare la tua afflizione in bellezza. Hai appeso i tuoi vestiti tra due mondi lontani, indossando con sicurezza i colori delle tue origini, portando in giro il tuo corpo stretto dal tehuana. Hai abbracciato fiera i tuoi gessi, armature candide che hai rispettato e celebrato come una seconda pelle. Forse la sofferenza in itinere può essere lenita con l’amore, sentimento che hai destinato con enfasi irrazionale e unica al tuo “panzon” Diego Rivera. Tra vino, pennelli e farfalle sei stata una donna libera da tutto, meno che da te stessa. Hai perso i tuoi figli tra le tele insanguinate delle tue opere, urlando al mondo il tempo della tua angoscia. E poi quella smisurata “attrazione” per la falce e martello, scelta di vita, cesura insanabile contro la mostruosità del capitalismo imperante. Hai saputo raccontarti al mondo, in maniera irruenta ed impertinente hai voluto gli sguardi tutti per te, non per sano egocentrismo o vanità, ma per imporre coi tuoi colori una carica dirompente.
E il tempo del tuo dolore non si è ancora concluso e parla alle nostre sequenze di grigi, alle copertine opache con le quali apriamo le nostre giornate sperando di sopportarle. I tuoi fiori, le tue collane di spine, i tuoi teschi dialogano con le domande più profonde dell’uomo che sceglie di affacciarsi dalle finestre della propria teca cranica ricongiungendosi con le opere essoteriche di Aristotele. Siamo tutti Priamo. Ma esiste un movimento vorticoso che sa ricongiungersi con se stesso e con ogni stortura e trepidazione che l’animo umano produce. Il perché si impone in tutta la sua drammaticità e noi non vogliamo arrenderci all’ovvietà di quel motto tanto antico: “Chi ne nasce ne muore”… perché non è così che vorremmo andasse a finire. E c’è il tempo del dolore, cara Frida, a cui neppure la morte può dare consolazione.