Paolo Di Paolo, “Mandami tanta vita”: la vicenda di Gobetti come paradigma di giovinezza pienamente vissuta

copertina Mandami tanta vitaLa giovinezza non può attendere: vive, scoppia, si espande, irrompe, nonostante l’insidia di anni carichi di funesti presagi.
È la giovinezza ardente e generosa di Piero, che si guarda attorno nella sua Torino grigia e un poco uggiosa degli anni Venti del Novecento, ma contemporaneamente guarda lontano e non si lascia chiudere l’orizzonte da un ambiente che si farà sempre più minaccioso e ostile.
Per questo, “un po’ Mazzini, un po’ Charlot”[1], andrà a Parigi, la città dove “girano come cani randagi poeti e pittori morti di fame”[2] e anche esuli affamati di libertà: “Non è la libertà, ciò a cui va incontro?”[3].
Egli è animato da grandi ideali e possiede la forza dell’intelligenza e della parola, le sue armi contro l’ottusità e la violenza che contribuiranno, sì, alla sua fine precoce, ma non potranno impedirgli di arrivare al futuro, lasciando un esempio che agirà come lievito nella formazione della coscienza morale e politica delle nuove generazioni.
E non può aspettare il cuore, che si affida con lucidità e tenerezza alla giovane Ada (“Purché piaccia ad Ada, io sono contento”[4]), lei, che “nel bambino chiuso, nel ragazzino sfottente che Piero era stato, aveva aperto un varco”[5], Ada, nome che “gli sembrava di leggere nell’insegna dei negozi, nei cartelloni delle strade, breve, sconfinato… e si sentiva di stare al sicuro in quel nome come in una tana”[6]; giovane sposa e compagna di speranze e di dolori, “ragazza che da qualche mese era già madre da sempre”[7], destinata a restare troppo presto sola con Paolo, il loro Pussin, pulcino, che non conoscerà suo padre e che il padre voleva che restasse italiano.
Sono pochi ma maturi gli anni di Piero (e quanto testimonia a riguardo la sua biblioteca, che contiene Serra, Tasso, De Sanctis, Papini!); sono pochi, ma l’intensità (“Partiva per Firenze, per Roma, vedeva Salvemini, vedeva Gentile”[8]…) e la caparbietà con cui sono vissuti (“Basta volerle le cose…Basta infinitamente volerle”[9]) sembrano moltiplicarli e infittirli, dando compiutezza a un’esistenza tanto breve.
Parallelamente alla sua si svolge la vita di Moraldo, giovane studente di Lettere che, dopo una prima fase di istintiva antipatia, ammira e segretamente un poco invidia le qualità di Piero, che vorrebbe incontrare e magari imitare, ma che le strane alchimie del caso gli consentono solo di sfiorare; tuttavia, forse, la notizia della sua morte darà finalmente una sferzata e una direzione al futuro di Moraldo, bloccato dall’indecisione e avvolto nell’incertezza: l’altra faccia dell’età giovanile.
A lui, nel gioco degli incontri orditi dalla sorte, una valigia scambiata aveva fatto conoscere una giovane fotografa, Carlotta, ma non era stato l’amore: di lei gli sarebbe rimasto un “ritaglio di fotografia davanti agli occhi, come un santino nelle mani di chi sente di aver perso Dio”[10]. Moraldo dovrà faticosamente imparare che è più facile ritrovare una valigia smarrita che la propria strada e se stessi.
Paolo Di Paolo, in questo libro interamente giovane, ma artisticamente maturo, soprattutto nella naturalezza con cui il dato storico si fa elemento elegiaco e il lirismo del linguaggio si fonde con la sua nitida precisione, trasforma la vicenda straordinaria e drammatica di Piero Gobetti in un paradigma di giovinezza pienamente vissuta, appassionata e struggente nella sua tragica brevità, destinata a dilatarsi ed estendersi in molte altre future giovinezze.

 

[1] P. Di Paolo, Mandami tanta vita, Feltrinelli, Milano 2013, p. 73.

[2] Ivi, p. 78.

[3] Ivi, p. 50.

[4] Ivi, p. 88.

[5] Ivi, p. 89.

[6] Ivi, p. 91.

[7] Ivi, p. 31.

[8] Ivi, p. 47.

[9] Ivi, p. 31.

[10] Ivi, p. 149.

La poesia di Lucio Piccolo: una “tregua” vorticosa e splendente

Lucio Piccolo
©Tano Cuva

“Così conosco una musica dolce nel mio ricordo senza ricordarmene neppure una nota: so che si chiama la partenza o il ritorno.”
D. Campana

Comporre un dialogo con la voce poetica di Lucio Piccolo non significa soltanto scoprire versi sublimi, ma in qualche modo scoprir-si, tra radici vive e volute liriche, all’interno di un possente magnetismo culturale, di un’ariosa sorpresa di pensiero, di un potente incanto della parola. Incanto in cui pure il cosmico carico pensoso si fa “solubile” polvere di suono, a posarsi e spostarsi in danze sillabiche su tempo perduto… continuando (e questo il bello!) a perderlo… tra solenni “ingombri” d’antico e raffinate vitali trame di memoria.
La corolla di questo presente lirico-esistenziale è proprio la memoria: con petali e code di secoli il suo gioco urgente e pulsante, nonché vano, è spalancato su un’oggettività apparente, tutta interiorizzata, sul darsi e negarsi simbolico del mondo… dove la filosofia indaga, la poesia calamita.
E il mondo che entra dal verso di Piccolo è segnato da quella frenesia di forme tipica delle epoche in declino, da un intenso dispiegarsi fenomenologico, tra mito e natura, dove il “sapere” e l’ “essere” (perduto lo smalto d’immota certezza) si danno in dosi cangianti e sonanti di cose, che ne “sorreggono” il mistero, il “nulla d’inesauribile segreto” (Ungaretti), le increspature di morte… gli splendenti frantumi. Eppure nella tensione lirica, nel barocco profondo tra essere e nulla, tra abbraccio vitalistico e abbandono nostalgico, dove rifluisce e si “nasconde” anche l’io lirico, tra morsa romantica del limite (formale, storico ed esistenziale) e slargo d’infinito, si consuma ancora una fiamma simbolica, una residua tensione verso l’alto velata di sogno (assente in Montale) della quale l’oggetto è investito.
Quest’io lirico fuso nelle dolcezze di un’atavica altalena, di un dondolio onirico schiuso sul labile infinito del Novecento, nascosto tra le fronde dei secoli e la mobilia degli anni, appare affine a un altro io lirico che, però, tende non a fondersi e nascondersi, ma a rivelarsi in tutta la sua amorosa ansia soggettiva… S’inseguono le struggenti semine musicali di colori del canto orfico di Campana e di quello barocco di Piccolo… si chiamano le visioni dei Luoghi nella loro luminescenza interiore di suono, nella notte come culla tempestosa e stellata, richiamo di mito e d’ombra: nei Canti Orfici[1] “passano nella veglia opime di messi d’amore, leggere spole tessenti fantasie multicolori, errano, polvere luminosa che posa nell’enigma degli specchi” (La notte); in quelli barocchi[2] “subito allo schermo dei sogni/ soffia in vene vive volti già cenere, parole àfone…/ muove la girandola d’ombre” (La notte).

Paesaggio mediterraneo
©Pablo Picasso

“Su da le pagine risuscitava un mondo defunto, sorgevano immagini antiche che oscillavano lentamente coll’ombra del paralume e sovra il mio capo gravava un cielo misterioso, gravido di forme vaghe, rotto a tratti da gemiti di melodramma: larve che si scioglievano mute per rinascere a vita inestinguibile nel silenzio pieno delle profondità meravigliose del destino” (Dualismo, Lettera aperta a Manuelita Etchegarray).
I cantori del “crepuscolo mediterraneo” imprimono alla parola la luce e il fruscio di un viaggio incessante nella vita, denudata dal mito, accesa dal simbolo, adorna di memoria: non importa, anzi accresce il fascino di quest’affinità, se il viaggiare di Campana è anche inquietamente fisico fino alla definitiva chiusura in manicomio, mentre il viaggiare di Piccolo è quasi esclusivamente culturale e spirituale, nella solitaria apertura della Villa di contrada Vina a Capo d’Orlando (Messina), che non manca ancora oggi di mettere in moto profondi percorsi culturali ed esistenziali, di calamitare “identità in cammino”[3].
E in effetti, la poesia di Lucio Piccolo, maturata nella “tregua” magica della Villa, sembra attingere a un vorticoso nucleo d’assoluto, conducendoci al danzante miraggio della lettura, dove la sostanza barocca dell’esistere e la sostanza sin-estetica di Luce e Suono srotolano lungo il verso un cinematografico nastro di forme che illumina e illude sulla possibilità della poesia di abbracciare “Tutto”.
La grazia di una totalità negata all’uomo contemporaneo anima l’illusione lirica di Piccolo attraverso il ritmo e la visione, in un continuo presente poetico come fondale mobile, “schermo”, “scorrente parete dipinta”, per apparizioni e sparizioni di forme, tra voce per vedere il tempo e luce per sentire lo spazio: “… un attimo ed ecco mutate/ splendon le forme, ondeggian/ millenni” (Mobile universo di folate).
Dal particolare rapporto estetico tra un eterno sfondo d’essere e un travolgente mutamento multiforme, scaturisce, complici i respiri delle inarcature, quell’effetto di ciclica continuità sospesa tipico del verso piccoliano (tipico, a ben vedere, anche dell’interiorità), in cui non si comincia e non si finisce, si cambia di continuo per non cambiare mai… “perenne/ vorticare in frantumi/ veloci, riflessi, barlumi/ di vita o di sogno” (Gioco a nascondere; questo concetto troverà la sua celebre applicazione alla Storia nel romanzo di Tomasi di Lampedusa, ma la poesia di Piccolo ne costituisce la meravigliosa realizzazione estetica).

“Nel guardaroba della natura/ c’è un mucchio di costumi” (Szymborska). Il flusso musicale di metafore e metamorfosi che trasforma, attraverso il “filtro magico” di un fitto intreccio fonico, il tempo perduto in tempo ritrovato, i fantasmi in fratelli, che la sapienza artistica apparenta al sogno: “Sospetto che la luna/ lontana e avvolta pure non tralascia/ gli infiltramenti oltre le mura e pone/ lenta bozzoli di bambagia,/ matasse di filamenti di umori/ albi e lo sa/ la gonna appesa nel sonno di canfora” (Gioco a nascondere). I versi arrivano col fiatone del nulla alato del gioco poetico, con l’ “inutile” urgenza del ricordo e del richiamo, riuscendo a trovare un loro oscillante splendente originale equilibrio tra opposti, a salvare un rimando d’armonia quasi pitagorica, a piantare una scheggia d’universale nel cuore diviso delle cose.
Incontrano, tra gli altri, i passi angosciosamente soggettivi di Campana, che scende a bagnarsi in inferni mitici e sogni barbari, a ferirsi in specchi di occhi di donne e rivedere “magri cavalieri dell’irreale […] dagli occhi perforanti di nostalgie feroci, tutta la grande piazza ardente di un concerto infernale stridente e irritante” (Dualismo, Lettera aperta a Manuelita Etchegarray), “riflettono” e “rispondono” all’inquietudine frantumata d’infinito dell’esoterico Pessoa, ai chiaroscuri ragionati sulla “corda pazza” di Pirandello: “si leverà quando vorrà la Notte/ assunta su le volte/ e le vegliarde e i fusi/ daranno il segno/ sui pendoli, ai quadranti acherontei” (Gioco a nascondere).
L’orologio lirico di Lucio Piccolo è un congegno perfetto che scandisce, come in una solare acrobazia sospesa, come nel distacco coinvolto del sogno, sentimento del tempo e sentimento del contrario, a comporre e scomporre il colorat-oscuro caos della cultura europea del Novecento.
Nel cielo di carta di quella cultura, come in ogni cielo, si possono distinguere raggruppamenti luminosi e, con più fatica, “dove si è cessato di guardare/ o non si guarda ancora”, stelle che brillano in solitudine.
Montale per primo accosta Canti Orfici e Canti barocchi (oltre che per un “afflato, un raptus”) per i “caratteri frusti e poco leggibili” della veste tipografica…
Quei caratteri mi sembrano oggi teneri e beffardi “correlativi oggettivi” di un destino di solitaria grandezza, di “smemorata” esclusione, che autenticamente accomuna Dino Campana e Lucio Piccolo, pur con le dovute differenze e la maggiore fortuna postuma del poeta toscano, pagata però col sangue della patente di matto… Del resto non a tutti la vita concede il lusso di una sana follia in compagnia di benevoli folletti al posto di diabolici parenti e loschi psichiatri!
E mi sembra che quei caratteri “frusti e poco leggibili” ci guardino dal cielo di carta della poesia, come dal cielo sopra Villa Piccolo, invitandoci alla dolcissima fatica della memoria.

 

[1]  I passi citati nel corso dell’articolo fanno riferimento all’edizione Canti Orfici, Corriere della Sera (Un secolo di poesia, 35), Milano 2012.

[2]  Per le citazioni delle opere di Lucio Piccolo si fa riferimento a Canti barocchi e Gioco a nascondere, Libri Scheiwiller, Milano 2001.

[3] “Identità in cammino” era nel 2012 il tema de Le Porte del Sacro, rassegna che si tiene ogni estate a Villa Piccolo.

Lettera ad Hannah

Cara Hannah,
Hannah Arendt
manchi da troppo, tanto tempo. Io mi perdo ogni giorno e da anni tra i meandri del tuo pensiero, consapevole che solo una mente femminile poteva partorire, portare alla luce tanta acuta bellezza. Il tuo pensiero è un monumento contro l’ipocrisia di ogni tempo e tuona ancora come una sfida che bisognerebbe cogliere con tutta la sua portata rivoluzionaria. Riconciliarci col mondo e con l’incomprensibile è un esercizio difficile e duro, da palestra mentale che toglie il sonno e cela una mai superata malinconia dell’essere. Ma ai filosofi più che ai poeti è cara la malinconia! E tu lo sai bene, è un sentimento che si addice molto a chi sceglie di osservare con lenti diverse ciò che appare e porta in nuce la diversità, la differenza.
Quanto sarà stato difficile per te, ebrea e libera pensatrice, ammettere la banalità del male? Andare incontro alle accuse più feroci degli uomini del tuo tempo? Sei stata accusata di odiare te stessa e il tuo popolo sol perché hai ammesso una verità scomoda, non una fallace opinione. In questo sta l’essenza della tua filosofia. Hai riportato alla luce l’antica e parmenidea dicotomia tra verità e doxa. Ma in che modo il tuo pensiero poteva inserirsi tra le maglie strette di un popolo ferito che voleva solo vendetta? Hai provato a farti ascoltare cercando di spiegare le origini del totalitarismo, come evento che tutto scardina, perfino le vecchie categorie. Non lo si può comprendere, hai detto, fino a quando non sarà stato, quindi nel suo effettivo superamento. Comprendere il totalitarismo significava comprendere l’essenza di “quel secolo”. C’è una terribile originalità nel totalitarismo che non richiama in alcun modo altri esempi, porti sicuri per il nostro intelletto che non riesce ad andare oltre, legandosi a categorie politiche e storiche passate. L’evento ci priva dei soliti, consueti strumenti di comprensione e si inizia a vacillare.
Ma, cara amica, tu mi hai insegnato una cosa molto importante: “Se vogliamo sentirci a casa in questo mondo, anche al prezzo di sentirci a casa in questo secolo, dobbiamo cercare di partecipare al dialogo interminabile con l’essenza del totalitarismo”[1]. E tutto questo travaglio della mente ben si coniuga col tuo concetto di politica come spazio necessario, individuale e collettivo, per essere. Libertà e politica sono la medesima cosa, allora, cara Hannah, noi stiamo perdendo per sempre la nostra possibilità di essere e di essere liberi. È spaventoso quanto l’avvento del totalitarismo. Il nostro agire ha smarrito la sua facoltà di iniziare e di replicarsi. Siamo e non siamo perché ci hanno sottratto il nostro spazio pubblico dove apparire e far dialogare le nostre diversità. Se per i greci la vita privata era considerata “idiota”, allora è questo quello che siamo diventati, incapaci di apportare nel mondo, che pur esperiamo, la nostra irripetibile unicità. Spaventoso e orrendo, al pari dell’olocausto anche noi siamo delle non persone, annichilite e pronte a non lottare per tenere in vita la nostra ragione.
Le democrazie che tu hai conosciuto e quelle che stiamo vivendo hanno eclissato ogni possibilità di partecipazione “activa” alla vita pubblica. Il potere si auto-inganna e cade vittima di se stesso e tu sei riuscita a portare sul banco degli imputati perfino gli Stati Uniti e la guerra in Vietnam, con una lucidità che fa male e fa riflettere ancora oggi.
La creazione di un’immagine capace di sostituire la realtà è il gioco più perverso del nostro tempo, ne siamo tutti vittime e carnefici allo stesso tempo. La politica utilizza la sua techne per fabbricare sostituti della realtà, dove inizia e finisce la nostra libertà? Ma la tecnica rischia di ridurre gli uomini ad una massa informe, inetti all’azione, rischia, “proprio quando lo straordinario apparato tecnologico moderno sembra rendere l’uomo signore incontrastato dell’universo, di annichilire l’uomo distruggendo la sua statura”[2].
E concludo la mia lettera, sperando che arrivi fin lassù, sull’Olimpo dei pensatori, chiedendoti come si fa a sopravvivere ad un amore tanto grande, un “non finito” nella routine quotidiana? Non sei mai caduta in trappole, tranne in quelle create apposta per te dal tuo grande maestro e amante Martin Heidegger. La volpe, come ti piaceva chiamarlo, l’uomo che amava la tua intelligenza, ma che preferiva nasconderti al mondo. Vi siete amati infinitamente con la passione e la phronesis dei grandi. Andavi a trovarlo di nascosto e come tutte le grandi donne sapevi subordinare ciò che vi univa al suo pensiero e al tuo. Poteva e doveva non pensarti per dedicarsi ai suoi esercizi intellettuali, pur essendo la sua costante musa. Eppure la tua libertà ti ha portato al suo necessario superamento…in ciò forse sta l’essenza del vostro amore. Il pensatore vicino al nazismo e la pensatrice ebraica, sua allieva, costretta ad andare via per non essere vittima dell’odio dell’uomo verso l’uomo. Avete atteso 25 lunghi anni per rivedervi…solo la filosofia poteva rendere dolce questa attesa, che non compensa, che non paga le umiliazioni subite. Brillano le città in Oriente e non è detto che l’amore possa essere più forte della voglia di vivere di filosofia, vera ed autentica compagna che non tradisce, ma protegge dalle mediocrità di ieri e di oggi.

[1] H. Arendt, Verità e politica, Bollati Boringhieri, Torino 1995.

[2] Ivi.

Il tempo “perduto”: Spadafora e il suo poeta (Appendice in versi)

Quando capita la bella avventura di fare un pezzo di strada con un poeta, poi, proprio come accade fra amici che stanno bene insieme, è difficile accomiatarsi e ci si lega al filo delle parole, a continuare un dialogo gratificante e fecondo.
Capita, inoltre, di imparare qualcosa dall’amico e, magari, di adottarne, seppure con molti limiti, il linguaggio, almeno quanto basta per esprimergli ammirazione e gratitudine.

Nostalgia del mare
©Maria Luisa Ferrari

Ô pueta Antuninu Giunta,
pi rrispunniri ô sò Salutu

Mali di pirdunarvi nun avemu,
chì sempri fustu prontu a benoprari,
tuttu lu nostru cori ci mintemu
pi putirivi sempri rricurdari.

Cummattistu pâ nostra libbirtati
e nni curastu puru a malatia,
rricanuscemu tutti a gran bbuntati
e grazzii pâ vostra puisia.

Stu salutu chi ultimu nni dastu
è cchiù di tutti cosa cummuventi,
picchì, comu Vui stissu cunfidastu,
nni lu dastu cû cori e cu la menti.[1]

 

Rringrazziamentu
(ô pueta Antuninu Giunta)

Dutturi[2], pi la vostra curtisia,
sintiti chiddu ca mmattiu a mia,
c’un jornu m’imbattia ’nta stu vulumi
e ci sintia nu ciàuru di numi;

nu ciàuru non novu a lu mé nasu:
dintra c’erunu i padri, non pi casu!
E all’impruvvisu mi truvai cu mmia,
’nta li chiesi e li strati, a genti mia.

Quantu mi parsi beddu stu Paisi,
li sò casi, cu’i lacrimi e i surrisi,
e Vui c’ancora nni passati accantu,
pi cu sapi scutari u vostru cantu!

Scusatimi s’a Vui m’arrivulgia,
ma no fici pi usari scurtisia:
chista chi pari tanta cunfidenza
è sulamenti gran rricanuscenza.[3]

 

 

[1] Al poeta Antonino Giunta, in risposta al suo Saluto
Non abbiamo nulla da perdonarvi,/ perché siete stato sempre pronto al bene,/ e noi ci mettiamo tutto il nostro affetto/ per ricordarvi sempre./ Avete combattuto per la nostra libertà,/ ci avete pure curato la malattia,/ tutti riconosciamo la vostra grande bontà/ e vi ringraziamo per la vostra poesia./ Questo ultimo saluto che ci avete dato/ è la cosa più commovente di tutte,/ perché, come Voi stesso avete confessato,/ ce lo avete dato con il cuore e con la mente.

[2] A Spadafora, il poeta Giunta è ancora per tutti “u Dutturi Giunta”, e a lui è stata intitolata una via, appunto via Dottor Giunta.

[3] Ringraziamento (al poeta Antonino Giunta)
Dottore, cortese come siete,/ ascoltate cosa è capitato a me,/ che un giorno mi sono imbattuta in questo libro/ e ci ho sentito odore di sacro;/ un odore non nuovo al mio naso:/ dentro c’erano i padri, non era un caso!/ E all’improvviso ho ritrovato con me,/ nelle chiese e per le strade, la mia gente./ Quanto mi è parso bello questo Paese,/ le sue case, con le lacrime e i sorrisi,/ e Voi che ancora passate accanto a noi,/ per chi è capace di ascoltare i vostri versi!/ Scusatemi se mi sono rivolta a Voi,/ non è stata mancanza di cortesia:/ questa che sembra un eccesso di confidenza/ è solo un’immensa riconoscenza.

Il tempo “perduto”: Spadafora e il suo poeta (Parte quarta)

Castello di SpadaforaUmana comprensione, invece, benché condita di maliziosa ironia, per lu Farotu (l’abitante di Faro), che, dopo una vita santa, fa un colpo di testa, che ora sconta con lacrime amare:

Doppu tant’anni di campari santu,
lu Farotu pirdiu lu sintimentu,
ed ora scunta cu duluri e chiantu
cincu minuti di divirtimentu.
Pirchì natura avvilinasti tantu
lu sfrinatu piaciri d’un mumentu,
chi a quann’a quannu niscennu Fra Santu
turnò cu l’anchi rutti a lu cunventu?
[1] (Lu Farotu)

Graziosamente ironico e malizioso anche il componimento dedicato a Jnuzza (Sunettu), a proposito del quale l’autore ci informa che si tratta di un fatto realmente accaduto (supra lu fattu veru, recita il sottotitolo).
L’incontro con la bella è tutt’altro che romantico: il giovanotto, infatti, urta contro il fascio di legna che la ragazza trasporta e si “sgargiau mascidda e coddu[2] (v. 5 ), non perdendo, però, il suo buon umore, anzi, con verve e malizia popolana, chiede alla fanciulla se non sarebbe stato meglio con un altro pennello fargli la barba (…cu nautru pinseddu,/ oh bedda…/ farmi la varva, non era cchiù beddu?, vv. 6-8). Ma la popolana, edizione ottocentesca e più risoluta della “Rosa fresca aulentissima” di Cielo d’Alcamo, sorda a sentimenti e fantasie, gli consiglia di togliersi dalla testa cose che il suo confessore considera peccati e chiude, senza lasciare spazio a repliche, sulla minaccia ancora più concreta rappresentata dalla madre:

Taliannumi sutt’occhi: Ih marchiatu!
Levatilla ssa brutta fantasia,
lu cunfissuri dici ch’è piccatu…

Si sapissi me Mà, m’ammazziria,
ch’ancora, senza d’essiri ‘ncignatu,
m’arrisicassi dar’oricchi a tia.[3] (Sunettu, vv. 9-14 )

Di grande intensità affettiva e particolare grazia poetica è il componimento dedicato a Beatrice, ultimogenita del poeta[4], dove c’è tutto lo stupore del padre di fronte al rinnovarsi del miracolo della vita e l’abilità del poeta che tale stupore ci restituisce in settenari intensi e leggeri allo stesso tempo:

Nascisti Biatrici,
fu amuri, sentimentu,
o angelicu purtentu,
dimmi, cu mai ti fici?
Ch’in tia beltà celesti
pigghiò l’umana vesti![5] (A Biatrici, vv.1-6)

E lo sguardo innamorato del padre non si stanca di seguire la crescita della sua creatura, cogliendone la bellezza nei suoi particolari più teneri: gli ucchiuzzi sfavillanti[6] (v. 8), i dintuzzi alabastrini[7] (v. 13), li trizzi ‘cannulati[8] (v. 23): insomma, senza dubbio, Beatrice è stata cosparsa fuori misura, da capo a piedi, dei favori delle Grazie e dell’ Amore e, per le sue trecce inanellate, ci si son messe pure le fate:

Li Grazii, l’Amuri
ti sparsiru cu junti,
di pedi sinu a frunti,
tutti li soi favuri;
li trizzi ‘cannulati
sunn’opra di li fati![9] (vv. 19-24)

Di intensa passione amorosa è intrisa l’ottava dedicata a Caterina, futura moglie del poeta[10], la più bella fra le belle, che gli ha acceso l’animo con il suo fresco viso di mela, i suoi occhi, la sua fronte, il suo sorriso: a lui resta solo la lucidità per capire di non potere vivere più lontano da questo suo terrestre, personale paradiso:

Bedda chi di li beddi si la scuma,
guardannu a tia mi sentu un focu accisu,
‘ntra ssa facciuzza di na vera puma
hai beddi l’occhi, la frunti, lu risu.
Catarina! pri tia stu cori adduma
chi stari non po’ chiù da tia divisu,
si avissi li toi fravuli e ddi puma
saria certu truvarmi in paradisu.[11] (A la bedda Catarina)

Un piccolo paradiso, probabilmente, è stata anche la sua Spadafora, che lo ha amato e che egli ha amato, tanto che è per gli Spadafurisi il suo estremo saluto in versi[12]:

A vui Spadafurisi amici cari,
chi mi stimastu e mi vulistu beni
ludannu di pregiarmi in benoprari,
di partirmi a la muta non cunveni,
cori e menti vi vogghiu salutari,
si a qualchi fallu rallintai li freni,
ni dici cu n’insigna a pirdunari,
chi lu mali si scorda e non lu beni. (Salutu, in puntu piriculusissimu di vita)[13]

Al poeta, che aveva costantemente goduto della stima e dell’affetto dei suoi concittadini, non sfuggiva certo l’importanza di questi doni, cui egli risponde, nell’accomiatarsi anche dalla vita, con grande e umile tenerezza, potenziata nel suo significato proprio dal momento in cui viene espressa.

Passione politica e passione amorosa, ironia e tenerezza, sarcasmo e naturale empatia, serietà e leggerezza, mente lucida e cuore appassionato ci restituiscono, dunque, in versi di varia misura e ritmo, nonostante il numero esiguo di componimenti esaminati, non solo una personalità di notevole interesse umano e artistico, ma anche uno spaccato di vita quotidiana nella Spadafora della seconda metà dell’Ottocento, che non esclude, come si è visto, l’incastro naturale con gli eventi della grande Storia. Questo sguardo, quasi attraverso una finestra sospesa sul tempo, nonostante gli inevitabili mutamenti di uomini e cose, ci consente di cogliere un legame, forse meno fragile di quanto non appaia da considerazioni frettolose e superficiali, fra la Spadafora di ieri e quella di oggi.

 

 

[1] Dopo tanti anni di vita santa,/ il Faroto ha perso la testa,/ ed ora paga con dolore e pianto/ cinque minuti di gioia./ O natura, perché hai avvelenato tanto/ il piacere sfrenato d’un momento/ che, per una sola volta che Fra Santo è uscito,/ è tornato al convento con le gambe rotte?

[2] Si è graffiato la mascella e il collo.

[3] Guardandomi di sottecchi: Ih scostumato!/ Toglitela questa brutta fantasia,/ il confessore dice ch’è peccato…/ Se lo sapesse mia Madre, mi ammazzerebbe,/ che, non essendo ancora usato,/ io osi prestare ascolto a te.

[4] Beatrice è l’ultima di venti figli. Questo elemento biografico è stato fornito dalla pronipote del poeta, Signora Beatrice Bellinghieri, alla quale va un sentito ringraziamento.

[5] Sei nata, Beatrice,/ è stato amore, sentimento,/ o miracolo di angeli,/ dimmi, chi mai ti ha fatto?/ Ché in te la bellezza celeste/ ha preso aspetto umano!

[6] Occhietti che sprigionano luce.

[7] Dentini bianchi come l’alabastro.

[8] Le trecce inanellate.

[9] Le Grazie, l’Amore/ ti hanno cosparsa abbondantemente,/ dai piedi alla fronte,/ di tutti i loro doni;/ le trecce inanellate/ sono lavoro delle fate!

[10] Anche per questo dato la fonte è la pronipote del poeta citata in precedenza (cfr. nota 4).

[11] Bella, fior fiore delle belle,/ guardandoti mi sento accendere come un fuoco,/ in questo visetto di mela/ hai belli gli occhi, la fronte, il sorriso./ Caterina! Per te arde questo cuore/ che non può più stare separato da te,/ se avessi le tue fragole e quelle mele/ sarei sicuro di trovarmi in paradiso.

[12] Il componimento è del 13 marzo 1890; la morte sarebbe sopraggiunta il 31 luglio dello stesso anno.

[13] A voi Spadaforesi amici cari,/ che mi avete stimato e voluto bene/ lodando che io mi onorassi di bene agire,/ non è opportuno andar via in silenzio,/ voglio salutarvi con il cuore e l’anima,/ se mi sono lasciato andare a qualche errore,/ chi ci insegna a perdonare ci dice/ che si deve dimenticare il male, non il bene. (Saluto, in un momento di gravissimo pericolo di vita)