Lettera ad Hannah

Cara Hannah,
Hannah Arendt
manchi da troppo, tanto tempo. Io mi perdo ogni giorno e da anni tra i meandri del tuo pensiero, consapevole che solo una mente femminile poteva partorire, portare alla luce tanta acuta bellezza. Il tuo pensiero è un monumento contro l’ipocrisia di ogni tempo e tuona ancora come una sfida che bisognerebbe cogliere con tutta la sua portata rivoluzionaria. Riconciliarci col mondo e con l’incomprensibile è un esercizio difficile e duro, da palestra mentale che toglie il sonno e cela una mai superata malinconia dell’essere. Ma ai filosofi più che ai poeti è cara la malinconia! E tu lo sai bene, è un sentimento che si addice molto a chi sceglie di osservare con lenti diverse ciò che appare e porta in nuce la diversità, la differenza.
Quanto sarà stato difficile per te, ebrea e libera pensatrice, ammettere la banalità del male? Andare incontro alle accuse più feroci degli uomini del tuo tempo? Sei stata accusata di odiare te stessa e il tuo popolo sol perché hai ammesso una verità scomoda, non una fallace opinione. In questo sta l’essenza della tua filosofia. Hai riportato alla luce l’antica e parmenidea dicotomia tra verità e doxa. Ma in che modo il tuo pensiero poteva inserirsi tra le maglie strette di un popolo ferito che voleva solo vendetta? Hai provato a farti ascoltare cercando di spiegare le origini del totalitarismo, come evento che tutto scardina, perfino le vecchie categorie. Non lo si può comprendere, hai detto, fino a quando non sarà stato, quindi nel suo effettivo superamento. Comprendere il totalitarismo significava comprendere l’essenza di “quel secolo”. C’è una terribile originalità nel totalitarismo che non richiama in alcun modo altri esempi, porti sicuri per il nostro intelletto che non riesce ad andare oltre, legandosi a categorie politiche e storiche passate. L’evento ci priva dei soliti, consueti strumenti di comprensione e si inizia a vacillare.
Ma, cara amica, tu mi hai insegnato una cosa molto importante: “Se vogliamo sentirci a casa in questo mondo, anche al prezzo di sentirci a casa in questo secolo, dobbiamo cercare di partecipare al dialogo interminabile con l’essenza del totalitarismo”[1]. E tutto questo travaglio della mente ben si coniuga col tuo concetto di politica come spazio necessario, individuale e collettivo, per essere. Libertà e politica sono la medesima cosa, allora, cara Hannah, noi stiamo perdendo per sempre la nostra possibilità di essere e di essere liberi. È spaventoso quanto l’avvento del totalitarismo. Il nostro agire ha smarrito la sua facoltà di iniziare e di replicarsi. Siamo e non siamo perché ci hanno sottratto il nostro spazio pubblico dove apparire e far dialogare le nostre diversità. Se per i greci la vita privata era considerata “idiota”, allora è questo quello che siamo diventati, incapaci di apportare nel mondo, che pur esperiamo, la nostra irripetibile unicità. Spaventoso e orrendo, al pari dell’olocausto anche noi siamo delle non persone, annichilite e pronte a non lottare per tenere in vita la nostra ragione.
Le democrazie che tu hai conosciuto e quelle che stiamo vivendo hanno eclissato ogni possibilità di partecipazione “activa” alla vita pubblica. Il potere si auto-inganna e cade vittima di se stesso e tu sei riuscita a portare sul banco degli imputati perfino gli Stati Uniti e la guerra in Vietnam, con una lucidità che fa male e fa riflettere ancora oggi.
La creazione di un’immagine capace di sostituire la realtà è il gioco più perverso del nostro tempo, ne siamo tutti vittime e carnefici allo stesso tempo. La politica utilizza la sua techne per fabbricare sostituti della realtà, dove inizia e finisce la nostra libertà? Ma la tecnica rischia di ridurre gli uomini ad una massa informe, inetti all’azione, rischia, “proprio quando lo straordinario apparato tecnologico moderno sembra rendere l’uomo signore incontrastato dell’universo, di annichilire l’uomo distruggendo la sua statura”[2].
E concludo la mia lettera, sperando che arrivi fin lassù, sull’Olimpo dei pensatori, chiedendoti come si fa a sopravvivere ad un amore tanto grande, un “non finito” nella routine quotidiana? Non sei mai caduta in trappole, tranne in quelle create apposta per te dal tuo grande maestro e amante Martin Heidegger. La volpe, come ti piaceva chiamarlo, l’uomo che amava la tua intelligenza, ma che preferiva nasconderti al mondo. Vi siete amati infinitamente con la passione e la phronesis dei grandi. Andavi a trovarlo di nascosto e come tutte le grandi donne sapevi subordinare ciò che vi univa al suo pensiero e al tuo. Poteva e doveva non pensarti per dedicarsi ai suoi esercizi intellettuali, pur essendo la sua costante musa. Eppure la tua libertà ti ha portato al suo necessario superamento…in ciò forse sta l’essenza del vostro amore. Il pensatore vicino al nazismo e la pensatrice ebraica, sua allieva, costretta ad andare via per non essere vittima dell’odio dell’uomo verso l’uomo. Avete atteso 25 lunghi anni per rivedervi…solo la filosofia poteva rendere dolce questa attesa, che non compensa, che non paga le umiliazioni subite. Brillano le città in Oriente e non è detto che l’amore possa essere più forte della voglia di vivere di filosofia, vera ed autentica compagna che non tradisce, ma protegge dalle mediocrità di ieri e di oggi.

[1] H. Arendt, Verità e politica, Bollati Boringhieri, Torino 1995.

[2] Ivi.