Lo straniero, il teschio e il prigioniero

Castello di Aci Castello
©Erika Weinmann, 1985

Mi ero spinto in quel piccolo paesino così, un po’ per caso e un po’ per la voglia di far qualcosa di alternativo, in quella cupa ma afosa domenica di Aprile. Con la mia utilitaria dalla freccia mal funzionante, in preda ad un impulso di esaltante libertà e indipendenza, girai più volte tra i vicoli e le stradine rifiutandomi persino di rispettare i segnali stradali! Trasportato da tutto ciò, decisi di lasciare la macchina in un vicolo cieco, non curante della gente che seduta al bar di fronte mi fissava: – In fondo- mi dissi – potrei biascicare qualche parola in spagnolo e farmi passare per un turista inesperto!
Sceso dalla macchina, quello che vidi fu un immenso spettacolo storico-naturale: un enorme castello che si affacciava sullo splendido mare azzurro tipico della mia Sicilia, quella stessa Sicilia che in quell’ultimo periodo mi dava forti dispiaceri e che, invece, in quella insolita mattina, era riuscita a stupirmi a sorpresa ancora una volta.

Proprio mentre fissavo inebetito tutto questo, una voce alle mie spalle sussurrò dolcemente, ma non per questo non facendomi trasalire: – Questo castello si erge su una rupe esito di un eruzione sottomarina che risale a milioni di anni prima della formazione dell’Etna!
Fu così che feci la conoscenza del guardiano del castello, un uomo minuto dall’occhialino tondo e dall’animo del poeta, la qual cosa mi fu subito chiara non appena, facendomi strada tra gli scalini, come captando il mio stato interiore, mi disse: – Una mela non ha rimorsi![1] Vada per il castello, troverà le risposte che cerca!

Ringraziai e, pensando a chissà quanta gente era stata rifilata questa stessa frase per incrementare l’entusiasmo della visita, iniziai a girovagare nelle terrazze immense, stupito dalla vista celestiale che il posto mi offriva. Da una di queste riuscii persino a scorgere l’isoletta proprio lì davanti e mi chiesi se fosse ancora accessibile. Dopo aver fatto qualche foto, tornai indietro e, mentre mi avviavo all’uscita, mi resi conto che c’era un’ultima stanza da visitare. Scesi quindi qualche scalino e, passando sotto un piccolo porticato, mi ritrovai dentro a un’area che, diversamente dalle altre, ospitava delle teche di vetro che custodivano reperti archeologici probabilmente risalenti all’epoca primitiva. Tra questi vi erano anche alcuni teschi di primati, non ne avevo mai visti prima e la cosa mi affascinò parecchio: in fondo visitare quest’ultima stanza non era stata affatto una perdita di tempo. Fissavo interessato, quasi alitando sul vetro, quando improvvisamente un teschio, tra l’altro diverso dagli altri, iniziò a parlare raccontando una romantica e triste storia: la storia del prigioniero del castello, un uomo che in epoca lontana, era stato tenuto in catene nelle segrete alle quali si poteva accedere solo tramite la botola al piano superiore, la stessa botola che adesso il custode chiamava “pozzo dei desideri”.[2]

Il teschio raccontò che l’uomo era stato severamente punito per aver cacciato selvaggina appartenente al Signore del posto, il quale aveva deciso che, visto che gli era stato rubato un pezzetto di cielo, la pena sarebbe stata la medesima: l’uomo sarebbe stato imprigionato dentro una botola da dove il cielo era visibile solo per una piccolissima porzione, così da poter ricordare di cosa era stato privato e di chi fosse dunque il potere.
Ed infatti il prigioniero passava minuti, ore, giorni interi a pensare a tutto ciò che aveva e che aveva perso, alla sua terra, alla sua vita e in particolare pensava a Teresa, la splendida Teresa che gli aveva rubato il cuore e il cui battito di ciglia l’aveva fatto innamorare. Ed era proprio quest’immagine suadente che il battito di ali di quella beccaccia gli aveva evocato, e ancora questo il motivo che lo aveva spinto a catturarla, non dunque per ucciderla, ma semplicemente per tenerla con lui, per sentirsi vicino alla sua amata.
Così lui pensava e ripensava finché un giorno, dalla grata sopra la sua testa, cadde, probabilmente portato dal vento quasi per magia, un piccolo pezzetto di cenere nera, forse proveniente dal grande Etna ancora in eruzione.
Quella sì che fu per il povero sventurato una benedizione, perché poté usarlo per scrivere sulle pareti della cella, divenuta ormai sua triste dimora, una splendida poesia per l’amata, che la sera, al sorgere della luna, amava invocare ad alta voce, sperando che un flebile alito di vento potesse sussurrarla all’ orecchio di Teresa prima di prender sonno… chissà che in codesto modo fosse più facile incontrarsi nei sogni.
Ciò purtroppo non accadde, gli anni passarono lenti ed inesorabili finché il prigioniero si arrese al suo destino e si lasciò  morire. Questa storia era estremamente triste e io, non curante dell’assurdità di ciò che stava accadendo, preso dall’enfasi del racconto, lo dissi al teschio quasi insultandolo per aver incupito ancora di più la mia giornata! Lui, dal canto suo, non sembrò rimanere male per questa mia reazione, né tanto meno sembrò a sua volta essersi arrabbiato. Fece piuttosto un sorriso amaro e disse:

“O furisteru câ vinisti di luntanu,
picchì ha’ renniri ancora chiù pisanti lu me distinu amaru?
Non vidi chi d’ ’i me carni ristau sulu ‘na crozza vacanti?
Si ’u destinu ti purtau ccà supra un mutivu ci saravi!
Fammi ’nu favuri!
Ccussì câ me anima possa raggiungiri ’u Criaturi!
Va’ ‘ntâ ’dda isuledda e cunta i me versi sutta a l’àlbiru supra â cullina,
a ’dda cruci ‘ntâ terra cà vasa di tant’anni ’u me Cori!”
[3]

Disse questo e poi più nulla! Dopo qualche istante di silenzio, fu come se improvvisamente tornai in me e la prima reazione fu quella di stropicciarmi gli occhi e asciugarmi la fronte. Il caldo mi aveva giocato un brutto scherzo in quello strano castello, sicuramente mi ero lasciato suggestionare dalle parole del custode, quindi bevvi un sorso d’acqua e ridiscesi.

Seduto nella panchina della piazza, fissando la statua della madre, le parole che avevo immaginato di udire mi ritornavano alla mente come un disco rotto senza che riuscissi a liberarmene… in fondo, non avrei perso nulla nel recarmi su quell’isola, anche solo per esplorarla o per dimostrare a me stesso che sicuramente non avrei trovato nulla.
Mi feci dare un insolito passaggio da un vecchio pescatore attraccato al porticciolo, dicendogli banalmente che avevo da fare delle foto per un articolo e, una volta affondati i piedi sulla sabbia, iniziai il mio cammino sull’isola, forse anche un po’ contrariato dalla sensazione di inebriante curiosità, la stessa che mi aveva portato fin lì. Camminai per un lungo tratto finché mi resi conto di essere un po’ più in alto rispetto al livello del mare, mi guardai intorno e, a qualche metro da me, vi era un salice che muoveva le lunghe fronde a destra e a sinistra, come accarezzando qualcosa. Mi avvicinai piano piano e sotto la vidi: era proprio la croce di cui parlava il teschio, una croce di legno scuro affondata nella terra, priva di qualunque segno o scritta. Preso da un irresistibile impulso, come in forma di rispetto, mi inginocchiai lì accanto e, seguendo ancora una volta il mio istinto, ripetei la dolce poesia del prigioniero verso dopo verso e, proprio quando stavo per terminare, sentii di nuovo una voce, stavolta femminile ma forse più lontana, che mi disse: – Non importa quanto sarà lunga l’attesa, segui sempre il tuo cuore!

Ancora oggi, quando penso a quello che avvenne quel giorno, mi sento invadere da un senso di tiepido e avvolgente mistero: varie le domande che mi sono posto, i dubbi, le congetture… Ma adesso, seduto nella mia poltrona comoda e accogliente, mentre seguo la rotta delle rughe che solcano le mie mani, mi piace pensare che forse sono stato scelto come l’ultimo testimone di questa fantastica storia perché sarei stato in grado di farne tesoro, scelto dunque come ultimo uditore del prigioniero che ha affidato proprio a me la sua più intima preghiera: quella di consegnare a Teresa il suo dolce messaggio d’amore ispirato dal cielo sopra la città del castello.


[1] Verso del poeta-custode Davide Aricò.

[2] Questa storia trae libera ispirazione dal racconto che viene effettivamente narrato dal custode a chi si reca in visita al castello di Aci Castello.

[3] Ci si scusa per eventuali errori di trascrizione del dialetto, ma il nostro povero straniero ha riferito meglio che ha potuto quel che udì quel giorno lontano. Inoltre, per chi è ancora più straniero dello straniero, riportiamo le parole del teschio in italiano: “Oh straniero che sei venuto da lontano, perché vuoi rendere ancora più pesante il mio destino amaro? Non vedi che del mio corpo rimane solo un cranio vuoto? Se il destino ti ha portato quassù un motivo ci sarà! Fammi un favore, in modo che la mia anima possa raggiungere il Creatore! Va’ in quell’isoletta e declama i miei versi sotto l’albero in cima alla collina, a quella croce nella terra che bacia da tanti anni il mio Cuore!”