Il prolungato risveglio in un mondo molto più brutale di quello che l’amore per la vita e per la letteratura aveva (complice l’astro della giovinezza) disegnato, buona stella sotto la quale era nata anche Lolitaca, mi obbliga a immensi silenzi, dirada la poesia e mette sale d’interrogativi sulle ferite del presente. Diventa importante, in particolare, esplorare l’inquietante relazione tra consumo di conoscenze e incapacità di conoscenza, e quindi di scelta tra bene e male. Ovvero, non solo l’alfabetizzazione di massa, la divulgazione dei saperi attraverso nuovi e molteplici mezzi, non sembrano avere ricadute etiche, nutrire i vissuti, ma anzi sembrano favorire uno stordimento occidentale che delega ai freschi dogmi della tecnica e delle specializzazioni il dovere-diritto di una crescita personale come continua scoperta d’identità in relazione.
La “magia della scienza” si fonde così a vecchi istinti religiosi in un limbo di credenze che mascherano sempre peggio la loro vera natura di rituali di controllo di una Precarietà allargata e “fatale”. Sappiamo sì se l’amico ha letto il nostro messaggio grazie alla doppia spunta blu, ma non sappiamo un tubo del nostro amico. Né di noi stessi. La vorace dinamica controllo-incontrollabilità fagocita la possibilità della conoscenza, amplifica quella della violenza; gli spot pubblicitari diventano sempre più le nostre parabole, e, venendo meno i modi e i tempi del conoscere, non possono che essere parabole sulla prestazione. Ma non si tratta delle prestazioni del prodotto… Il prodotto, al contrario, veglia sulle nostre prestazioni, si autocandida a collante identitario, vincendo facile (ad esempio, unifica e prescrive le prestazioni di donna, professionista e mamma, e quelle dei componenti di una famiglia e di una cultura); scandisce l’autocombustione dell’istante in quel nostro presente eterno che sostituisce la possibilità dell’essere presenti a noi stessi. Il prodotto-corpo e il prodotto-cultura sono i più sciagurati, ma anche quelli che meglio rivelano le crepe di questo modello, in una contraddizione che potrebbe diventare la base logistica per lanciare la sonda dell’intelligenza emotiva alla riconquista di uno spazio umano.
Intanto l’ignoranza (in)controllata rimbomba nei giganteschi processi di eroizzazione – mostrificazione dei media: è inaccettabile che uno sia una persona onesta: deve essere un eroe; e quel “bravo ragazzo” che a(m)mazza la moglie? E quell’ “emergenza” che dura da ottant’anni?
La cartuccera delle etichette linguistiche rivela la sconfitta della possibilità di trovare una misura umana, che recuperi l’autenticità del rapporto tra essere e dire, che consenta di ri-conoscere e comunicare noi stessi, l’altro e la realtà fuori dall’ansiogena ruota delle circostanze e della serialità esistenziale prodotta dall’omologazione. In definitiva, spariamo l’impossibilità di significare il mondo. Se il mondo non è significato dall’uomo è significato dal potere, anzi dai poteri, e da chi fa risuonare ben altri spari.
Noi ci accontentiamo di… “valere”: del resto tra lavoro-che-non-c’è, studio-che-non-serve (e si vede!) e trattamenti estetici non è che resti molto tempo! Come criceti sulla ruota della prestazione, con l’aggravante della “sincerità”, cioè di quella rappresentazione arbitraria e narcisistica che il criceto spaccia di corsa agli altri criceti. Al vuoto di comprensione si affianca così anche l’oppio dell’opinione, quell’equivoco democratico per il quale il diritto d’espressione si sostituisce alla responsabilità di capire, approfondire, ricreare, in definitiva, un rapporto con la verità… che, in assenza di una ricerca, diventa slogan e prende lo stomaco. Uno stomaco a forma di portafoglio sembra presiedere alle scelte pubbliche e private. Non ci resta che sperare nel mal di pancia.