Il gioco delle quattro carte: un anno di Lolitaca

Boreas
©John William Waterhouse, 1903

“E la volpe e l’istrice, di certo, stanno cercando un luogo, anzi, un giorno la cui misura è sempre.”
P. Buttafuoco, Il dolore pazzo dell’amore

L’otto Marzo 2013 iniziava questo gioco delle quattro carte che è Lolitaca: avendo voluto legare un anno di misurata spericolatezza letteraria (e non solo) a un giorno di banalità dorata di mimosa, mi tocca ora prendere da attimi affastellati d’incontri l’essenza di un racconto…
Tanto per cominciare, ho dovuto allargare il dominio del Silenzio, la distesa dell’Assenza… per ospitare dentro e fuori di me questo mulino a metafora, questa tela di libertà da tessere giorno per giorno, parola per parola, immersa nell’esilio dolceamaro d’ogni distanza, d’ogni esistenza…; una tela che, complici lontane Aracne, Arianna, Penelope…, si fa traccia, scia di poesia, filo di tempo perduto, tra mostri e boati attuali, dal quale si snoda un sentiero…, un sentiero che r-esiste in mezzo ai giardini d’ogni caduta, alla cera d’ogni volo…
La terra (Itaca?) che non ho sotto i piedi, ma nel cuore, la vado segnando e sognando con passo di parola, con fiato di meraviglia e schegge di spirito critico, persino quando, urtando la cronaca e la retorica, il dolore del 23 Maggio è stato sigillato col destino della primavera e coi versi del giardino di Hamdìs.
Certo, potrei ignorare la passione e la misura che viene da un disperato esercizio di consapevolezza, attaccarmi anch’io come una folcloristica nota di colore alle brache del Potere… o come le ostriche, dolorose insegne di prestigio sociale, con le quali la nonna della Sirenetta ornava la coda, felicemente ignara delle fantasticherie fatali consumate ad Aci Trezza… Potrei anch’io lusingare i paternalismi politici, giornalistici, editoriali…, appena riverniciati di fresco dalla Storia, con letterine pedanti e lamentose, e con tutti quei parti indigesti di parole della fauna femminile omologata che piacciono tanto alla fauna maschile omologata: del resto, essendo una giovane (per un altro po’) donna-madre-del Sud (per sempre), becco in pieno il folclore sociale del momento…
Ma, invece, mi “accontento” di estrarre parole (poche) ai confini del silenzio: prima di farmi risucchiare da patinati gorghi retorici opposti e complementari, preservo dall’ombra il dovere dello stupore; prima di lamentarmi del “sistema” (che fa il gioco delle tre carte), vedo la sfida per migliorare me stessa attraverso il solare rigore dell’Arte… del suo gioco che è sempre rinnovata possibilità di uno sguardo inedito sulle cose, apertura interrogativa e innamorata di vita… appesi al filo di un’intima metamorfosi, di una ricerca che custodisca lo scrigno di una realtà onestamente paradossale e autenticamente appassionata, e che faccia annegare il narcisismo del dolore e l’ostentazione della gioia in un guizzo d’universale.
Al “sistema”, ai “padri”, ai “padroni”, e a tutto quello che vuoi tu, oppongo la gratuita resistenza est-etica ed esistenziale del fare le cose per Amore.
Tanto per cominciare, del non cercare un “posto”, ma un “luogo”; non una “data”, ma un “giorno”; del non voler diventare “qualcuno”, ma (cosa molto più difficile) “nessuno”; del non voler “insegnare”, ma (cosa molto più difficile) “imparare”.
Tanto per cominciare, ho dovuto allargare il dominio del Silenzio, la distesa dell’Assenza… affinché Tu abbia la possibilità di scegliere, ogni volta che passi di qui, se essere uno Sconosciuto o un Fratello.

La poesia di Lucio Piccolo: una “tregua” vorticosa e splendente

Lucio Piccolo
©Tano Cuva

“Così conosco una musica dolce nel mio ricordo senza ricordarmene neppure una nota: so che si chiama la partenza o il ritorno.”
D. Campana

Comporre un dialogo con la voce poetica di Lucio Piccolo non significa soltanto scoprire versi sublimi, ma in qualche modo scoprir-si, tra radici vive e volute liriche, all’interno di un possente magnetismo culturale, di un’ariosa sorpresa di pensiero, di un potente incanto della parola. Incanto in cui pure il cosmico carico pensoso si fa “solubile” polvere di suono, a posarsi e spostarsi in danze sillabiche su tempo perduto… continuando (e questo il bello!) a perderlo… tra solenni “ingombri” d’antico e raffinate vitali trame di memoria.
La corolla di questo presente lirico-esistenziale è proprio la memoria: con petali e code di secoli il suo gioco urgente e pulsante, nonché vano, è spalancato su un’oggettività apparente, tutta interiorizzata, sul darsi e negarsi simbolico del mondo… dove la filosofia indaga, la poesia calamita.
E il mondo che entra dal verso di Piccolo è segnato da quella frenesia di forme tipica delle epoche in declino, da un intenso dispiegarsi fenomenologico, tra mito e natura, dove il “sapere” e l’ “essere” (perduto lo smalto d’immota certezza) si danno in dosi cangianti e sonanti di cose, che ne “sorreggono” il mistero, il “nulla d’inesauribile segreto” (Ungaretti), le increspature di morte… gli splendenti frantumi. Eppure nella tensione lirica, nel barocco profondo tra essere e nulla, tra abbraccio vitalistico e abbandono nostalgico, dove rifluisce e si “nasconde” anche l’io lirico, tra morsa romantica del limite (formale, storico ed esistenziale) e slargo d’infinito, si consuma ancora una fiamma simbolica, una residua tensione verso l’alto velata di sogno (assente in Montale) della quale l’oggetto è investito.
Quest’io lirico fuso nelle dolcezze di un’atavica altalena, di un dondolio onirico schiuso sul labile infinito del Novecento, nascosto tra le fronde dei secoli e la mobilia degli anni, appare affine a un altro io lirico che, però, tende non a fondersi e nascondersi, ma a rivelarsi in tutta la sua amorosa ansia soggettiva… S’inseguono le struggenti semine musicali di colori del canto orfico di Campana e di quello barocco di Piccolo… si chiamano le visioni dei Luoghi nella loro luminescenza interiore di suono, nella notte come culla tempestosa e stellata, richiamo di mito e d’ombra: nei Canti Orfici[1] “passano nella veglia opime di messi d’amore, leggere spole tessenti fantasie multicolori, errano, polvere luminosa che posa nell’enigma degli specchi” (La notte); in quelli barocchi[2] “subito allo schermo dei sogni/ soffia in vene vive volti già cenere, parole àfone…/ muove la girandola d’ombre” (La notte).

Paesaggio mediterraneo
©Pablo Picasso

“Su da le pagine risuscitava un mondo defunto, sorgevano immagini antiche che oscillavano lentamente coll’ombra del paralume e sovra il mio capo gravava un cielo misterioso, gravido di forme vaghe, rotto a tratti da gemiti di melodramma: larve che si scioglievano mute per rinascere a vita inestinguibile nel silenzio pieno delle profondità meravigliose del destino” (Dualismo, Lettera aperta a Manuelita Etchegarray).
I cantori del “crepuscolo mediterraneo” imprimono alla parola la luce e il fruscio di un viaggio incessante nella vita, denudata dal mito, accesa dal simbolo, adorna di memoria: non importa, anzi accresce il fascino di quest’affinità, se il viaggiare di Campana è anche inquietamente fisico fino alla definitiva chiusura in manicomio, mentre il viaggiare di Piccolo è quasi esclusivamente culturale e spirituale, nella solitaria apertura della Villa di contrada Vina a Capo d’Orlando (Messina), che non manca ancora oggi di mettere in moto profondi percorsi culturali ed esistenziali, di calamitare “identità in cammino”[3].
E in effetti, la poesia di Lucio Piccolo, maturata nella “tregua” magica della Villa, sembra attingere a un vorticoso nucleo d’assoluto, conducendoci al danzante miraggio della lettura, dove la sostanza barocca dell’esistere e la sostanza sin-estetica di Luce e Suono srotolano lungo il verso un cinematografico nastro di forme che illumina e illude sulla possibilità della poesia di abbracciare “Tutto”.
La grazia di una totalità negata all’uomo contemporaneo anima l’illusione lirica di Piccolo attraverso il ritmo e la visione, in un continuo presente poetico come fondale mobile, “schermo”, “scorrente parete dipinta”, per apparizioni e sparizioni di forme, tra voce per vedere il tempo e luce per sentire lo spazio: “… un attimo ed ecco mutate/ splendon le forme, ondeggian/ millenni” (Mobile universo di folate).
Dal particolare rapporto estetico tra un eterno sfondo d’essere e un travolgente mutamento multiforme, scaturisce, complici i respiri delle inarcature, quell’effetto di ciclica continuità sospesa tipico del verso piccoliano (tipico, a ben vedere, anche dell’interiorità), in cui non si comincia e non si finisce, si cambia di continuo per non cambiare mai… “perenne/ vorticare in frantumi/ veloci, riflessi, barlumi/ di vita o di sogno” (Gioco a nascondere; questo concetto troverà la sua celebre applicazione alla Storia nel romanzo di Tomasi di Lampedusa, ma la poesia di Piccolo ne costituisce la meravigliosa realizzazione estetica).

“Nel guardaroba della natura/ c’è un mucchio di costumi” (Szymborska). Il flusso musicale di metafore e metamorfosi che trasforma, attraverso il “filtro magico” di un fitto intreccio fonico, il tempo perduto in tempo ritrovato, i fantasmi in fratelli, che la sapienza artistica apparenta al sogno: “Sospetto che la luna/ lontana e avvolta pure non tralascia/ gli infiltramenti oltre le mura e pone/ lenta bozzoli di bambagia,/ matasse di filamenti di umori/ albi e lo sa/ la gonna appesa nel sonno di canfora” (Gioco a nascondere). I versi arrivano col fiatone del nulla alato del gioco poetico, con l’ “inutile” urgenza del ricordo e del richiamo, riuscendo a trovare un loro oscillante splendente originale equilibrio tra opposti, a salvare un rimando d’armonia quasi pitagorica, a piantare una scheggia d’universale nel cuore diviso delle cose.
Incontrano, tra gli altri, i passi angosciosamente soggettivi di Campana, che scende a bagnarsi in inferni mitici e sogni barbari, a ferirsi in specchi di occhi di donne e rivedere “magri cavalieri dell’irreale […] dagli occhi perforanti di nostalgie feroci, tutta la grande piazza ardente di un concerto infernale stridente e irritante” (Dualismo, Lettera aperta a Manuelita Etchegarray), “riflettono” e “rispondono” all’inquietudine frantumata d’infinito dell’esoterico Pessoa, ai chiaroscuri ragionati sulla “corda pazza” di Pirandello: “si leverà quando vorrà la Notte/ assunta su le volte/ e le vegliarde e i fusi/ daranno il segno/ sui pendoli, ai quadranti acherontei” (Gioco a nascondere).
L’orologio lirico di Lucio Piccolo è un congegno perfetto che scandisce, come in una solare acrobazia sospesa, come nel distacco coinvolto del sogno, sentimento del tempo e sentimento del contrario, a comporre e scomporre il colorat-oscuro caos della cultura europea del Novecento.
Nel cielo di carta di quella cultura, come in ogni cielo, si possono distinguere raggruppamenti luminosi e, con più fatica, “dove si è cessato di guardare/ o non si guarda ancora”, stelle che brillano in solitudine.
Montale per primo accosta Canti Orfici e Canti barocchi (oltre che per un “afflato, un raptus”) per i “caratteri frusti e poco leggibili” della veste tipografica…
Quei caratteri mi sembrano oggi teneri e beffardi “correlativi oggettivi” di un destino di solitaria grandezza, di “smemorata” esclusione, che autenticamente accomuna Dino Campana e Lucio Piccolo, pur con le dovute differenze e la maggiore fortuna postuma del poeta toscano, pagata però col sangue della patente di matto… Del resto non a tutti la vita concede il lusso di una sana follia in compagnia di benevoli folletti al posto di diabolici parenti e loschi psichiatri!
E mi sembra che quei caratteri “frusti e poco leggibili” ci guardino dal cielo di carta della poesia, come dal cielo sopra Villa Piccolo, invitandoci alla dolcissima fatica della memoria.

 

[1]  I passi citati nel corso dell’articolo fanno riferimento all’edizione Canti Orfici, Corriere della Sera (Un secolo di poesia, 35), Milano 2012.

[2]  Per le citazioni delle opere di Lucio Piccolo si fa riferimento a Canti barocchi e Gioco a nascondere, Libri Scheiwiller, Milano 2001.

[3] “Identità in cammino” era nel 2012 il tema de Le Porte del Sacro, rassegna che si tiene ogni estate a Villa Piccolo.

Lanterne per calendari

Lanterne rosse, impeto
©Carla Rigato, 2010

Lanterne per calendari
per metronomi battiti d’ali
uomini come simboli mobili
due virgole di sogni:

sono il filo più piccolo e più forte
della tua trama; la voce che ti chiama…

Ma
provo dentro me a placare il volo
nel vuoto del passato

quel mare freddocaldo di ricordi
col cuore negli estremi

di una storia lontana
e di un uomo che mi ama.

Sono piene anche le mie mani
di vele bianche
rosse lanterne i versi
ali di gabbiani.

 

 

A tempo di luce

Luce e suono scandiscono il tempo-nontempo della poesia e ne disegnano i ritmi: la parola è unità di misura precisa e fragile del cangiante vissuto umano.

Miss e mass (media)

Fatti non foste a viver come brut(t)i…

VISIONE E TELE-VISIONE di Maria Rosa Irrera

Miss Italia 2013Cara Giulia,
ti scrivo dal paradiso, dove mi trovo ormai da tempo grazie all’intercessione di una donna. Non che il paradiso mi dispiaccia, ma avrei un certo desiderio di tornare sulla terra… Qui mi hanno scoraggiato tutti perché dicono che oggi in Italia per chi si occupa di cultura è un inferno, e che per fare lo scrittore non bisogna avere talento, ma santi in paradiso… Mi hanno addirittura detto (ma questo deve essere uno scherzo!) che gli italiani si ricordano di me soprattutto per il mio naso storto e per via di certi “rotoli”… e sono convinti che io avessi un flirt con Beatrice!
Avevo quindi rinunciato al mio folle volo all’ingiù… quando ti ho vista in tele-visione (ce la facciamo prestare dal diavolo per le grandi occasioni, e per riveder le stelle di Ballando) e mi si è riaccesa la speranza… Ho anche sentito (guarda che coincidenza!) che sta per cominciare un talent show per scrittori e vorrei tanto partecipare.
Per questo ti chiedo, cara Giulia, di intercedere per me presso la Dea Tele-visione: ho sentito che, dopo la tua apparizione, c’è una certa curiosità nei miei confronti… e vorrei, non dico diventare un personaggio famoso, ma farmi conoscere e amare un po’ di più dal grande pubblico…

Celesti saluti,
Dante

P.S. Per essere sicuro che questa missiva arrivi a destinazione, non la consegno all’arcangelo Gabriele (che, detto tra noi, è un po’ anziano), ma ho chiamato uno dei postini di una famosa trasmissione televisiva.

 

IL SERPENTE IMPRENDITORE di Maria Lizzio

Donna stritolata da serpente
©Marlen Zlatanova

Con le mele non funzionava più da un pezzo; Eva ne aveva ingoiato a quintali, ma, di conoscenza, nemmeno l’ombra e, per giunta, aveva sforato con il tasso glicemico. Nel frattempo, poi, la conoscenza era passata di moda e non ci si guadagnava più un euro.
Ma il serpente ne sapeva una più… del diavolo e, avendo un fiuto infallibile per gli affari, non si sarebbe certo fatta scappare Eva.
“Perché”, s’illuminò all’improvviso, “non costruire tanti spettacoli accattivanti di lavorononlavoro, in cui questa deliziosa creatura, senza la dannata faticaccia di imparare a fare qualcosa, dovrà solo esibire la propria bellezza?”
Eva, già impigrita dal lungo ozio paradisiaco, rimase fulminata dall’idea e, visto che, a conti fatti, l’anima non le serviva più, la vendette senza problemi al suo manager.
In compenso, avrebbe posseduto milioni di anime di spettatori intorpiditi quanto lei.

 

PSS… PSS… C’È DANTE CON LA MISS[1] di Maria Lizzio

Giulietta, ti ringrazio
di avermi dato spazio:

nemmeno Beatrice
aveva fatto tanto!

È vero, ho molto atteso
ed ero quasi stanco,

ma adesso sono sazio:

infine sono giunti,
a questa tarda età,

i quindici minuti
di celebrità!

 

[1] Giulia A., ultima icona dell’italica bellezza, ha…svelato, durante il concorso che l’ha proclamata vincitrice, il suo modo personalissimo di accostarsi al poeta: il tatuaggio, sul suo corpo, di due famosi versi danteschi.

I nomi sui barattoli e i numeri sulle bare: una riflessione e una poesia a margine del dolore di Lampedusa

LampedusaCapita che l’urgenza dolorosa e doverosa della cronaca lasci nel tempo relitti d’immagini su ritagli di silenzi, a comporre riflessioni (anch’esse “urgenti”, in diverso modo) che vanno oltre i margini dei giorni e dei traumi, per tentare di capire quello che siamo diventati culturalmente.
Scopro allora (e mi assumo la responsabilità di una prospettiva del tutto soggettiva e parziale) che della tragedia di Lampedusa dentro me è rimasta questa stridente sintesi: i nomi sui barattoli di noti prodotti commerciali e i numeri sulle bare.
Mi sembra tutto in questo contrasto, in questo pugno nello stomaco, il dramma paradossale della nostra società: un fondamentale bisogno umano d’identità che, non trovando autentiche radici relazionali e culturali, viene continuamente esasperato, frustrato e “catturato” dai fragilissimi e sapienti “specchi delle brame” pubblicitari (e dei social network), nei quali illudere la propria nullità, e ritrovare riflessi surrogati di sé, mozziconi di sogni… sentirsi “qualcuno” perché si possiede “qualcosa” (o “qualcun”- altro).
Di contro, nel cumulo di morte di Lampedusa colpisce e ferisce l’impossibilità di trovare tracce… di corpi, storie e sogni… Al punto che sulla quantità schiacciante, e proprio per questo inafferrabile dalla mente, della morte, forse solo la qualità pietosa della poesia, che non ha paura di muoversi nei dintorni di “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, può essere minimo, anche se problematico, risarcimento di significato per quella dissoluzione d’identità che, nella morte fisica, costituisce una seconda morte.
Tra i gusci vuoti del consumo e quelle bare numerate, tra il nostro narcisismo da Nutella e la disperazione che recide i volti dei profughi, un mare di miseria sociale, economica, culturale ed esistenziale; la possibilità faticosa di sapere di non sapere e di essere, come in una significativa lirica di Emily Dickinson, … “nessuno”.

 

Lampedusa, di vento e di pianto di Maria Lizzio

Volti di vento
e di sabbia

il mare non è
lo specchio delle brame

e non è musica
l’eco aspra del pianto
nelle conchiglie fraterne
della riva