La pancia democratica tra consumo e controllo

Satyricon
Satyricon (1969) di F. Fellini

Il prolungato risveglio in un mondo molto più brutale di quello che l’amore per la vita e per la letteratura aveva (complice l’astro della giovinezza) disegnato, buona stella sotto la quale era nata anche Lolitaca, mi obbliga a immensi silenzi, dirada la poesia e mette sale d’interrogativi sulle ferite del presente. Diventa importante, in particolare, esplorare l’inquietante relazione tra consumo di conoscenze e incapacità di conoscenza, e quindi di scelta tra bene e male. Ovvero, non solo l’alfabetizzazione di massa, la divulgazione dei saperi attraverso nuovi e molteplici mezzi, non sembrano avere ricadute etiche, nutrire i vissuti, ma anzi sembrano favorire uno stordimento occidentale che delega ai freschi dogmi della tecnica e delle specializzazioni il dovere-diritto di una crescita personale come continua scoperta d’identità in relazione.
La “magia della scienza” si fonde così a vecchi istinti religiosi in un limbo di credenze che mascherano sempre peggio la loro vera natura di rituali di controllo di una Precarietà allargata e “fatale”. Sappiamo sì se l’amico ha letto il nostro messaggio grazie alla doppia spunta blu, ma non sappiamo un tubo del nostro amico. Né di noi stessi. La vorace dinamica controllo-incontrollabilità fagocita la possibilità della conoscenza, amplifica quella della violenza; gli spot pubblicitari diventano sempre più le nostre parabole, e, venendo meno i modi e i tempi del conoscere, non possono che essere parabole sulla prestazione. Ma non si tratta delle prestazioni del prodotto… Il prodotto, al contrario, veglia sulle nostre prestazioni, si autocandida a collante identitario, vincendo facile (ad esempio, unifica e prescrive le prestazioni di donna, professionista e mamma, e quelle dei componenti di una famiglia e di una cultura); scandisce l’autocombustione dell’istante in quel nostro presente eterno che sostituisce la possibilità dell’essere presenti a noi stessi. Il prodotto-corpo e il prodotto-cultura sono i più sciagurati, ma anche quelli che meglio rivelano le crepe di questo modello, in una contraddizione che potrebbe diventare la base logistica per lanciare la sonda dell’intelligenza emotiva alla riconquista di uno spazio umano.

Pancia democraticaIntanto l’ignoranza (in)controllata rimbomba nei giganteschi processi di eroizzazione – mostrificazione dei media: è inaccettabile che uno sia una persona onesta: deve essere un eroe; e quel “bravo ragazzo” che a(m)mazza la moglie? E quell’ “emergenza” che dura da ottant’anni?
La cartuccera delle etichette linguistiche rivela la sconfitta della possibilità di trovare una misura umana, che recuperi l’autenticità del rapporto tra essere e dire, che consenta di ri-conoscere e comunicare noi stessi, l’altro e la realtà fuori dall’ansiogena ruota delle circostanze e della serialità esistenziale prodotta dall’omologazione. In definitiva, spariamo l’impossibilità di significare il mondo. Se il mondo non è significato dall’uomo è significato dal potere, anzi dai poteri, e da chi fa risuonare ben altri spari.

Noi ci accontentiamo di… “valere”: del resto tra lavoro-che-non-c’è, studio-che-non-serve (e si vede!) e trattamenti estetici non è che resti molto tempo! Come criceti sulla ruota della prestazione, con l’aggravante della “sincerità”, cioè di quella rappresentazione arbitraria e narcisistica che il criceto spaccia di corsa agli altri criceti. Al vuoto di comprensione si affianca così anche l’oppio dell’opinione, quell’equivoco democratico per il quale il diritto d’espressione si sostituisce alla responsabilità di capire, approfondire, ricreare, in definitiva, un rapporto con la verità… che, in assenza di una ricerca, diventa slogan e prende lo stomaco. Uno stomaco a forma di portafoglio sembra presiedere alle scelte pubbliche e private. Non ci resta che sperare nel mal di pancia.

La Casa delle Note: l’ “altro canto” di Villafranca Tirrena

La Casa delle Note
©La Casa delle Note

Villafranca Tirrena, in provincia di Messina, non è certo il paese delle meraviglie: un cinema e una libreria chiusi negli ultimi anni, di contro una fioritura di supermercati tale da farci sospettare un imminente scatto evolutivo: l’homo spesans spesans… Eppure, se, dopo aver fatto la spesa, per un attimo riuscissimo a far tacere i pifferi poco magici delle offerte commerciali e a seguire un (costosissimo?) sentiero di curiosità, scopriremmo che, a Villafranca Tirrena, in via Vittoria Colonna n.4, d’altro canto, c’è pure La Casa delle Note, Centro di formazione musicale e culturale, diretto dalla Prof.ssa Monica Mancuso.

Ora, già l’idea che le note (come le parole, i colori etc.) abbiano una “casa” mi pare, di questi tempi, piuttosto confortante… È vero che, come dice Calvino, “la fantasia è un posto dove ci piove dentro”, ma vorrei vedere voi…
Dare un luogo, e una chiave, a ciò che abita in noi, come la musica, è davvero, per una comunità, una questione etico-politica fondamentale, non meno dell’essere consumatori (e consumati?)… Non mi pare un caso che Qualcuno, tra umano e divino, a certo punto, tra vita e morte, dica: “Vado a prepararvi un luogo” (non “vado a fare la spesa”)… Se pensiamo, cioè, da educatori, artisti e cittadini, alla “casa” come luogo materiale e spirituale di ri-costruzione, giocosa e impegnata, di significanti e significati, appare cruciale anche il ruolo di un’alfabetizzazione musicale che risuoni dentro.
Ecco perché, a fare la differenza e ad unificare l’ampia offerta didattica della Casa delle Note (corsi di: Propedeutica musicale, Laboratorio di Violino, Coro di voci bianche, Canto lirico e moderno, Chitarra classica ed elettrica, Clarinetto, Fisarmonica, Pianoforte, Violino, Teoria musicale), troviamo la coerenza e la profondità di una partitura pedagogica che, dal microcosmo affettuoso e autorevole della relazione con i Maestri, si apre alla rivelazione dell’ascolto di sé e dell’Altro; dalla “casa”, dove si impara a dare tempo, voce e suono, alle note della propria umanità, al concerto della polis che ogni giorno ci chiama (o dovrebbe!) a rispettare pause e accordi, a farci strumento di idee e sentimenti, a ricomporre progetti e speranze. L’uomo è un animale musicale!

Quanto ci siamo allontanati dal rumore del saper (fare) questo e quello per rivestire l’ignoranza di noi stessi, dall’ipermercato delle specializzazioni con la svendita della cultura umanistica…!

La Casa delle Note
©Cristina Insinga

Non si può morire in un teatro, ma non si può neanche vivere in un supermercato… A quali piaceri dell’essere abbiamo chiuso noi le porte, prima che queste venissero stuprate dagli spari di una morte senza musica?
La gioia di vivere, la dignità di morire… la “dolce” morte dell’Occidente nelle bombe dei senzamusica … Ehi, Bambini, dov’è l’Europa? Non basta più il mappamondo.
I bambini del corso di Propedeutica musicale ascoltano Mozart e fanno danzare una coperta colorata… Abbiamo il sospetto che l’Europa si trovi proprio lì.

Nota ai “margini” del concerto di Jovanotti a Messina

…per diventare la donna che sei
attraversando oceani di sguardi…

Jovanotti a MessinaSe proviamo ad allentare le maglie di un “evento”, come il bel concerto di Jovanotti a Messina, il 18 Luglio 2015, scopriremo, tra fili tesi di cronaca, mosaici di fiabe tristi nella tessera dell’ “ora”…
La signora che sull’autobus canta la follia, quanti anelli di fuoco di deliri ha saltato per far fiorire la sua bocca con questo sorriso? Lei sente nelle canzoni amate la lista della spesa delle sue (proprio le sue!) emozioni, e il canto dell’Altro è il timone del suo battello ebbro, del suo barcone di speranze… Dentro questa navicella (messa a disposizione dal Comune di Messina) mi si attacca il tuo canto, non mi posso più difendere dal sudore e dallo sguardo… Siamo insieme pifferai e topi.

Nello stadio senti la carta velina dei sogni e, a un certo punto, ti pare pure di sentire la solitudine dell’Artista sul palco (il paradosso del successo: mentre ti fa conoscere agli altri, te ne allontana)… Ci incontriamo nei melodiosi crocevia delle canzoni di Jovanotti, dove le piccole cose si fanno… incantesimi di musica, dove il traffico d’attimi schiude… la gioia di essere; di appartenere a una grande danza… che ci viene sempre più difficile ballare insieme… E, del resto, come potrebbe aiutarci l’Uomo-Artista solo sul palco se, mentre fa scorrere la preghiera di pioggia vento e sangue nelle vene che ci accomuna, rievoca anche, suo malgrado, quella fittizia separatezza tra esseri umani che è causa ed effetto di tanti mali?
L’Artista sul palco, il Predicatore sull’altare, il Professore in cattedra… ognuno occupa il suo posto (in piedi o a sedere) di solitudine e sete, mettendo in scena l’asimmetria dolorosa che ci siamo abituati a chiamare “società”.
E brilla la stella di Paolo Borsellino (e le stelle ammassate dei profughi) nel cielo scucito della bedda Sicilia…ma quando, nella notte dei desideri, si riaccendono le luci, lo stadio non è pieno di stelle cadute, ma di munnizza… Allora mi appassiono alle mani che si mettono al lavoro per ripulire, non a quelle che continuano ad applaudire. Ormai non riesco più a guardare verso il palco: la spazzatura della realtà ci ha smascherati.

Il cammino del ritorno inizia con la bottiglia vuota sotto il braccio e la solita umiliazione di siciliana orgogliosa che svuota il cuore, l’impossibilità ancora una volta di dare lo scacco matto al proprio “isolamento”… Lungo la via meteoriti d’umanità, venditori ambulanti, artisti di strada… tra loro la fata malata dell’andata: seduta ora per terra il suo sguardo consuma il sortilegio della sera… Noi topi ora andiamo verso la navicella (messa a disposizione dal Comune di Messina): l’estate addosso, e pure gli altri passeggeri, ritroviamo, prima di tornare nei nostri appartamenti, il malsano piacere del contatto umano nell’ingorgo cittadino… Solo il giorno dopo scopriremo, grazie a un telegiornale locale, che la viabilità ha funzionato alla perfezione!

Ormai il palco è lontano, forse anche il futuro, le canzoni di Jovanotti ci guidano come sempre per vicoli di cose, mentre fuori dalla stazione silenziosa sfioriamo i sogni di chi dorme per terra, gli occhi spalancati delle principesse nere… Una di loro dice a mia figlia: “Ciao, bella!”. Ci salutiamo: siamo vicine e siamo donne. Vorrei fermarmi, ma per noi è ora di tornare nell’appartamento, per loro è ora di vendersi. Sfido col mio sguardo di donna un cliente che si copre il viso e penso che voglio tornare solo per guardare negli occhi chi si vende con dignità e chi compra con vergogna.

Uno sguardo nudo è il migliore scudo contro l’ipocrisia eletta a “terza via”… Riavvolgo il nastro di questa mia “nota ai margini” del concerto di Jovanotti a Messina: di questa canzone dove le stonature la fanno da padrone, di questa continua fiaba folle di sguardi che, ancora una volta, ci ostiniamo a chiamare “presente”.

Animali social

Le sorprendenti mutazioni genetiche degli ultimi tempi non risparmiano neanche la grammatica…

PRONOMI IM…PERSONALI di Maria Rosa Irrera

“Niente di personale”, si diceva Io con Loro in bocca senza sputare il rospo, scorrendo la sua bacheca facebook: era un pronome importante, mica Uno qualunque! “Come ha potuto pensare Tu che mi riferissi a Lui?”… Come si può pensare che Io parli a Tu…, per Tu? Mi sembra chiaro che Io si riferisse a Io, e che Tu dovrebbe farsi gli affari suoi (o tuoi?), smettere di farsi dare del tu e togliere senso, e diventare l’Ennesimo Io… Così, forse, Io e Tu, anzi Io e Io, potrebbero cominciare a capirsi.

Paperino

IL PAPERO INFORMATICO di Maria Lizzio

«Pape Satàn pape Satàn aleppe!»[1],
ma non è Pluto, è il papero Peppe,
che, trovata la formula perfetta,
la spruzza nella rete qua e là,
per fare avanzar la civiltà.

Ogni stagno ha un sussulto solidale,
di becco in becco corre il gran messaggio;

ma accade che, connessi e affratellati
nel costruire la nuova società,
qualcuno preme un tasto, un po’ distratto
e manda in aria paperi e contatto.

 

[1] Dante, Inferno VII, 1

Se un mattino di Marzo a Vizzini…

VizziniI luoghi hanno non solo un nome, ma anche un’anima, e conoscerli vuol dire esattamente scoprire quest’anima e sentirne la forza vitale.
Se il luogo è Vizzini, l’anima non può che esserne la fantasia realistica e dolente di Giovanni Verga.
Il viaggiatore attento, percorrendo le strade del paese, sente risuonare dentro di sé le voci dei personaggi verghiani e resta come avvinghiato alle loro speranze e fallimenti, passioni e miserie; sente su di sé il peso del loro destino amaro e ineluttabile: ne riscopre, insomma, l’universale umanità.
C’è il vicolo dove si consumano le passioni che inchiodano, seppure in modo diverso, i protagonisti della Cavalleria rusticana: la casa di Lola, che il destino ha voluto troppo vicina a quella di Santuzza; quella chiesa della mala Pasqua, dove nessuna resurrezione è possibile per questi dannati della terra, e, sulla stessa piazza, l’osteria della povera gnà Nunzia, madre sfortunata di Turiddu, il giovane innamorato che paga con la vita, laggiù, alla Canziria, la sua passione e la sua audacia.
A Vizzini matura la storia di un altro indimenticabile personaggio verghiano, che comincia da vincitore e finisce, inesorabilmente, vinto: Gesualdo Motta, mastro e don, tristemente schiacciato nell’ambiguità beffarda del suo destino di uomo straricco ma infinitamente povero, come è sempre chi tradisce i sentimenti per un bene materiale.
Nelle strade di Vizzini, poi, si può assaporare la fortuna di incontrare i personaggi verghiani «in carne ed ossa», grazie agli attori dell’Associazione Teatro Skené che, all’interno del Parco letterario «G. Verga», rappresentano le opere dello scrittore sul palcoscenico privilegiato dei luoghi che hanno ispirato la sua fantasia.
Così, in una ventosa mattinata quasi primaverile, è possibile risentire l’urlo che annuncia il compimento del destino di Turiddu: «Hanno ammazzato compare Turiddu!»; o imbattersi in mastro-don Gesualdo, più vivo e sconvolto che mai, davanti al palazzo Trao che sta andando in fiamme, mentre i vicini bussano urlando al portone, per salvare i proprietari in pericolo: «Don Ferdinando! Don Diego!».
E lo spettatore, percorso da un brivido, che è dono delle grandi emozioni, sente improvvisamente cancellata ogni distanza dai personaggi e vive come «normale» questa felice vicinanza: insomma, tocca con mano la certezza della loro umanissima immortalità.