Il tempo “perduto”: Spadafora e il suo poeta (Parte prima)

copertina Poesie GiuntaSi possono attraversare le strade del proprio paese scrutando e vivendo il presente, immergendosi con naturalezza nel suo “respiro”, nel “profumo” insostituibile dell’oggi, che, pur venato di qualche eventuale nostalgia, ha, tuttavia, la forza persuasiva e vincente di tutto ciò che vive.
Questo modo, però, non cancella il bisogno di recuperare l’anima più profonda e remota dei luoghi ed essa è inscindibilmente legata a volti e storie del passato, verso cui, quindi, è inevitabile guardare, e non per curiosità cronachistica né per una tanto scontata quanto inutile celebrazione nostalgica, ma per vivere più pienamente e consapevolmente il proprio tempo e luogo.
Il tempo e lo spazio, infatti, sono il palcoscenico di tutte le vicende umane, ma su di essi alcuni protagonisti hanno la forza di imprimere il loro nome come un sigillo, così che, quando il loro tempo si è concluso e i luoghi in cui vissero diventano lo scenario per altri protagonisti, il loro nome contiene il “respiro” di intere generazioni, di eventi e atmosfere, valori e sentimenti che si incontrano all’incrocio fra la grande Storia e le piccole storie di ogni individuo.
Così, un grande momento della storia d’Italia, quello delle lotte d’indipendenza, s’intreccia con la storia di Spadafora, piccolo paese adagiato sulla costa tirrenica fra Messina e Milazzo, nella persona e nell’opera di un illustre suo figlio, Antonino Giunta (1821-1890), patriota che godette della stima di Garibaldi, oltre che medico e poeta.
È sulla produzione poetica che qui ci si vuole soffermare, in quanto essa, pur radicata in un preciso luogo e momento, ha, però, la capacità di parlare a chiunque sappia interrogare una pagina e ascoltarne la voce.
Nella vasta raccolta poetica di Antonino Giunta, Poesie Siciliane – Varia[1]suddivisa in due parti, ci sono i sentimenti, i sogni e le speranze di un popolo, ma anche le piccole miserie quotidiane dell’uomo qualunque.
La lingua usata è il dialetto siciliano (benché il poeta abbia scritto componimenti anche in italiano), strumento agile, vivo ed efficace particolarmente nella rappresentazione dello spirito popolare, che Giunta coglie con grande arguzia non disgiunta da umanissima simpatia. I suoi popolani, inoltre, sono sempre ben radicati nel loro ambiente paesano, accarezzato dal poeta con sguardo affettuoso e partecipe. Balzano così agli occhi, dalle sue pagine, luoghi e figure vive, che ci restituiscono un paese alquanto diverso dall’attuale.
Sono storie, comportamenti, usanze, modi di essere e di esprimersi che compongono un quadro palpitante e ci consentono di “camminare” per la Spadafora di circa centocinquanta anni fa!
La produzione poetica di Antonino Giunta è vasta e varia: si va da poesie dolcemente bucoliche, che riecheggiano movenze di Giovanni Meli, a poesie arditamente patriottiche, a descrizione di luoghi epici e familiari allo stesso tempo (A Milazzu[2]), ad espressioni di affetti familiari, a rifacimenti di componimenti classici, a componimenti satirici, dove, probabilmente, Giunta dà il meglio di sé. La satira, anche la più frizzante, è però alquanto bonaria e affettuosa: Antonino Giunta è sempre uomo fra gli uomini, non è un austero e distante castigatore di costumi e, anche se colpisce i difetti, riesce sempre divertente e piacevole. Del resto, nel suo Lu ritrattu propriu (Autoritratto), afferma di essere “non tantu seriu, di cuscenza nettu” (“non troppo serio, di coscienza integra”, v.10); egli ha principi incrollabili, come testimonia tutta la sua vita, ma si muove con quella leggerezza che lo mantiene giovane anche quando la giovinezza è passata: “Sù sissant’anni e mi sentu picciottu” (“Ho sessant’anni e mi sento un giovanotto”), come recita il primo verso dello stesso componimento.

(continua)

[1] Per il presente studio si fa riferimento al volume in fotocopia, A. Giunta, Poesie Siciliane ed Italiane, con prefazione e note di G. Chinigò, stampato presso la Tipo-Litografia Nicotra di Messina, in possesso della Pro Loco di Spadafora (Messina).

[2] Il componimento è un esempio poeticamente efficace di questa sintesi; in esso viene ricordata L’acqua di li Violi, una contrada dove avvenne uno scontro fra garibaldini ed esercito borbonico, nel luglio 1860; qui l’umile canto delle lavandaie di Milazzo è un inno d’amore all’Italia che sta per nascere:

 All’acqua di li Violi,
ci su li lavannari,
chi apprisiru ad amari,
e cantanu a l’Italia inni d’amuri, 
chi cancella geografici figuri! (vv. 60-65)

All’acqua delle Viole,/ ci sono le lavandaie,/ che hanno imparato ad amare,/ e cantano all’Italia canzoni d’amore,/ che modificano la carta geografica!