Il tempo “perduto”: Spadafora e il suo poeta (Parte quarta)

Castello di SpadaforaUmana comprensione, invece, benché condita di maliziosa ironia, per lu Farotu (l’abitante di Faro), che, dopo una vita santa, fa un colpo di testa, che ora sconta con lacrime amare:

Doppu tant’anni di campari santu,
lu Farotu pirdiu lu sintimentu,
ed ora scunta cu duluri e chiantu
cincu minuti di divirtimentu.
Pirchì natura avvilinasti tantu
lu sfrinatu piaciri d’un mumentu,
chi a quann’a quannu niscennu Fra Santu
turnò cu l’anchi rutti a lu cunventu?
[1] (Lu Farotu)

Graziosamente ironico e malizioso anche il componimento dedicato a Jnuzza (Sunettu), a proposito del quale l’autore ci informa che si tratta di un fatto realmente accaduto (supra lu fattu veru, recita il sottotitolo).
L’incontro con la bella è tutt’altro che romantico: il giovanotto, infatti, urta contro il fascio di legna che la ragazza trasporta e si “sgargiau mascidda e coddu[2] (v. 5 ), non perdendo, però, il suo buon umore, anzi, con verve e malizia popolana, chiede alla fanciulla se non sarebbe stato meglio con un altro pennello fargli la barba (…cu nautru pinseddu,/ oh bedda…/ farmi la varva, non era cchiù beddu?, vv. 6-8). Ma la popolana, edizione ottocentesca e più risoluta della “Rosa fresca aulentissima” di Cielo d’Alcamo, sorda a sentimenti e fantasie, gli consiglia di togliersi dalla testa cose che il suo confessore considera peccati e chiude, senza lasciare spazio a repliche, sulla minaccia ancora più concreta rappresentata dalla madre:

Taliannumi sutt’occhi: Ih marchiatu!
Levatilla ssa brutta fantasia,
lu cunfissuri dici ch’è piccatu…

Si sapissi me Mà, m’ammazziria,
ch’ancora, senza d’essiri ‘ncignatu,
m’arrisicassi dar’oricchi a tia.[3] (Sunettu, vv. 9-14 )

Di grande intensità affettiva e particolare grazia poetica è il componimento dedicato a Beatrice, ultimogenita del poeta[4], dove c’è tutto lo stupore del padre di fronte al rinnovarsi del miracolo della vita e l’abilità del poeta che tale stupore ci restituisce in settenari intensi e leggeri allo stesso tempo:

Nascisti Biatrici,
fu amuri, sentimentu,
o angelicu purtentu,
dimmi, cu mai ti fici?
Ch’in tia beltà celesti
pigghiò l’umana vesti![5] (A Biatrici, vv.1-6)

E lo sguardo innamorato del padre non si stanca di seguire la crescita della sua creatura, cogliendone la bellezza nei suoi particolari più teneri: gli ucchiuzzi sfavillanti[6] (v. 8), i dintuzzi alabastrini[7] (v. 13), li trizzi ‘cannulati[8] (v. 23): insomma, senza dubbio, Beatrice è stata cosparsa fuori misura, da capo a piedi, dei favori delle Grazie e dell’ Amore e, per le sue trecce inanellate, ci si son messe pure le fate:

Li Grazii, l’Amuri
ti sparsiru cu junti,
di pedi sinu a frunti,
tutti li soi favuri;
li trizzi ‘cannulati
sunn’opra di li fati![9] (vv. 19-24)

Di intensa passione amorosa è intrisa l’ottava dedicata a Caterina, futura moglie del poeta[10], la più bella fra le belle, che gli ha acceso l’animo con il suo fresco viso di mela, i suoi occhi, la sua fronte, il suo sorriso: a lui resta solo la lucidità per capire di non potere vivere più lontano da questo suo terrestre, personale paradiso:

Bedda chi di li beddi si la scuma,
guardannu a tia mi sentu un focu accisu,
‘ntra ssa facciuzza di na vera puma
hai beddi l’occhi, la frunti, lu risu.
Catarina! pri tia stu cori adduma
chi stari non po’ chiù da tia divisu,
si avissi li toi fravuli e ddi puma
saria certu truvarmi in paradisu.[11] (A la bedda Catarina)

Un piccolo paradiso, probabilmente, è stata anche la sua Spadafora, che lo ha amato e che egli ha amato, tanto che è per gli Spadafurisi il suo estremo saluto in versi[12]:

A vui Spadafurisi amici cari,
chi mi stimastu e mi vulistu beni
ludannu di pregiarmi in benoprari,
di partirmi a la muta non cunveni,
cori e menti vi vogghiu salutari,
si a qualchi fallu rallintai li freni,
ni dici cu n’insigna a pirdunari,
chi lu mali si scorda e non lu beni. (Salutu, in puntu piriculusissimu di vita)[13]

Al poeta, che aveva costantemente goduto della stima e dell’affetto dei suoi concittadini, non sfuggiva certo l’importanza di questi doni, cui egli risponde, nell’accomiatarsi anche dalla vita, con grande e umile tenerezza, potenziata nel suo significato proprio dal momento in cui viene espressa.

Passione politica e passione amorosa, ironia e tenerezza, sarcasmo e naturale empatia, serietà e leggerezza, mente lucida e cuore appassionato ci restituiscono, dunque, in versi di varia misura e ritmo, nonostante il numero esiguo di componimenti esaminati, non solo una personalità di notevole interesse umano e artistico, ma anche uno spaccato di vita quotidiana nella Spadafora della seconda metà dell’Ottocento, che non esclude, come si è visto, l’incastro naturale con gli eventi della grande Storia. Questo sguardo, quasi attraverso una finestra sospesa sul tempo, nonostante gli inevitabili mutamenti di uomini e cose, ci consente di cogliere un legame, forse meno fragile di quanto non appaia da considerazioni frettolose e superficiali, fra la Spadafora di ieri e quella di oggi.

 

 

[1] Dopo tanti anni di vita santa,/ il Faroto ha perso la testa,/ ed ora paga con dolore e pianto/ cinque minuti di gioia./ O natura, perché hai avvelenato tanto/ il piacere sfrenato d’un momento/ che, per una sola volta che Fra Santo è uscito,/ è tornato al convento con le gambe rotte?

[2] Si è graffiato la mascella e il collo.

[3] Guardandomi di sottecchi: Ih scostumato!/ Toglitela questa brutta fantasia,/ il confessore dice ch’è peccato…/ Se lo sapesse mia Madre, mi ammazzerebbe,/ che, non essendo ancora usato,/ io osi prestare ascolto a te.

[4] Beatrice è l’ultima di venti figli. Questo elemento biografico è stato fornito dalla pronipote del poeta, Signora Beatrice Bellinghieri, alla quale va un sentito ringraziamento.

[5] Sei nata, Beatrice,/ è stato amore, sentimento,/ o miracolo di angeli,/ dimmi, chi mai ti ha fatto?/ Ché in te la bellezza celeste/ ha preso aspetto umano!

[6] Occhietti che sprigionano luce.

[7] Dentini bianchi come l’alabastro.

[8] Le trecce inanellate.

[9] Le Grazie, l’Amore/ ti hanno cosparsa abbondantemente,/ dai piedi alla fronte,/ di tutti i loro doni;/ le trecce inanellate/ sono lavoro delle fate!

[10] Anche per questo dato la fonte è la pronipote del poeta citata in precedenza (cfr. nota 4).

[11] Bella, fior fiore delle belle,/ guardandoti mi sento accendere come un fuoco,/ in questo visetto di mela/ hai belli gli occhi, la fronte, il sorriso./ Caterina! Per te arde questo cuore/ che non può più stare separato da te,/ se avessi le tue fragole e quelle mele/ sarei sicuro di trovarmi in paradiso.

[12] Il componimento è del 13 marzo 1890; la morte sarebbe sopraggiunta il 31 luglio dello stesso anno.

[13] A voi Spadaforesi amici cari,/ che mi avete stimato e voluto bene/ lodando che io mi onorassi di bene agire,/ non è opportuno andar via in silenzio,/ voglio salutarvi con il cuore e l’anima,/ se mi sono lasciato andare a qualche errore,/ chi ci insegna a perdonare ci dice/ che si deve dimenticare il male, non il bene. (Saluto, in un momento di gravissimo pericolo di vita)