Le strade del mio paese

Spadafora
©Sebastiano Irrera, 2014

Le strade corrono
come un bambino
ad abbracciare il mare,

scrigni del tempo
che soffiano parole.

Ricordo che di lì
un giorno

fra due ali di stelle

è passata
la mia giovinezza

 

 

La voce delle strade

Le strade sono ricche di voci che non provengono solo dal presente e il loro snodarsi non avviene solo nello spazio, ma anche nel tempo: fra i loro sassi “s’incrociano” le stagioni della vita.

Paolo Di Paolo, “Mandami tanta vita”: la vicenda di Gobetti come paradigma di giovinezza pienamente vissuta

copertina Mandami tanta vitaLa giovinezza non può attendere: vive, scoppia, si espande, irrompe, nonostante l’insidia di anni carichi di funesti presagi.
È la giovinezza ardente e generosa di Piero, che si guarda attorno nella sua Torino grigia e un poco uggiosa degli anni Venti del Novecento, ma contemporaneamente guarda lontano e non si lascia chiudere l’orizzonte da un ambiente che si farà sempre più minaccioso e ostile.
Per questo, “un po’ Mazzini, un po’ Charlot”[1], andrà a Parigi, la città dove “girano come cani randagi poeti e pittori morti di fame”[2] e anche esuli affamati di libertà: “Non è la libertà, ciò a cui va incontro?”[3].
Egli è animato da grandi ideali e possiede la forza dell’intelligenza e della parola, le sue armi contro l’ottusità e la violenza che contribuiranno, sì, alla sua fine precoce, ma non potranno impedirgli di arrivare al futuro, lasciando un esempio che agirà come lievito nella formazione della coscienza morale e politica delle nuove generazioni.
E non può aspettare il cuore, che si affida con lucidità e tenerezza alla giovane Ada (“Purché piaccia ad Ada, io sono contento”[4]), lei, che “nel bambino chiuso, nel ragazzino sfottente che Piero era stato, aveva aperto un varco”[5], Ada, nome che “gli sembrava di leggere nell’insegna dei negozi, nei cartelloni delle strade, breve, sconfinato… e si sentiva di stare al sicuro in quel nome come in una tana”[6]; giovane sposa e compagna di speranze e di dolori, “ragazza che da qualche mese era già madre da sempre”[7], destinata a restare troppo presto sola con Paolo, il loro Pussin, pulcino, che non conoscerà suo padre e che il padre voleva che restasse italiano.
Sono pochi ma maturi gli anni di Piero (e quanto testimonia a riguardo la sua biblioteca, che contiene Serra, Tasso, De Sanctis, Papini!); sono pochi, ma l’intensità (“Partiva per Firenze, per Roma, vedeva Salvemini, vedeva Gentile”[8]…) e la caparbietà con cui sono vissuti (“Basta volerle le cose…Basta infinitamente volerle”[9]) sembrano moltiplicarli e infittirli, dando compiutezza a un’esistenza tanto breve.
Parallelamente alla sua si svolge la vita di Moraldo, giovane studente di Lettere che, dopo una prima fase di istintiva antipatia, ammira e segretamente un poco invidia le qualità di Piero, che vorrebbe incontrare e magari imitare, ma che le strane alchimie del caso gli consentono solo di sfiorare; tuttavia, forse, la notizia della sua morte darà finalmente una sferzata e una direzione al futuro di Moraldo, bloccato dall’indecisione e avvolto nell’incertezza: l’altra faccia dell’età giovanile.
A lui, nel gioco degli incontri orditi dalla sorte, una valigia scambiata aveva fatto conoscere una giovane fotografa, Carlotta, ma non era stato l’amore: di lei gli sarebbe rimasto un “ritaglio di fotografia davanti agli occhi, come un santino nelle mani di chi sente di aver perso Dio”[10]. Moraldo dovrà faticosamente imparare che è più facile ritrovare una valigia smarrita che la propria strada e se stessi.
Paolo Di Paolo, in questo libro interamente giovane, ma artisticamente maturo, soprattutto nella naturalezza con cui il dato storico si fa elemento elegiaco e il lirismo del linguaggio si fonde con la sua nitida precisione, trasforma la vicenda straordinaria e drammatica di Piero Gobetti in un paradigma di giovinezza pienamente vissuta, appassionata e struggente nella sua tragica brevità, destinata a dilatarsi ed estendersi in molte altre future giovinezze.

 

[1] P. Di Paolo, Mandami tanta vita, Feltrinelli, Milano 2013, p. 73.

[2] Ivi, p. 78.

[3] Ivi, p. 50.

[4] Ivi, p. 88.

[5] Ivi, p. 89.

[6] Ivi, p. 91.

[7] Ivi, p. 31.

[8] Ivi, p. 47.

[9] Ivi, p. 31.

[10] Ivi, p. 149.

Variante del pedone avvelenato*

Variante del pedone avvelenatoSembra una fiaba
ma negli scacchi
è un’apertura che conduce
ad un gioco violentissimo
sulla scacchiera scorre
un invisibile sangue
frutto di un irreparabile squilibrio
chi accetta di addentrarsi
in quel gorgo di immagini
non ha paura della morte
anzi l’affronta
mordendola come una mela.

 

 

L’apparenza incanta

Da una fragile apparenza incantata si dipana un gioco labirintico e lucido, che va ad addensarsi su punte di pathos velato dall’ancoraggio prosaico, a scheggiare di risoluto e consapevole coraggio (che non è l’ingenuità di Biancaneve o la curiosità indefinita di Eva) l’oggetto finale, col suo carico di vita e di morte. (M.R.I.)

 

* Nel gioco degli scacchi, quella del diagramma è la posizione da cui nasce la “variante del pedone avvelenato”: il pedone in questione è quello che si trova nella casella b2. La Donna, che si trova in b6, attacca il pedone e il Bianco, se vuole ottenere un vantaggio dall’apertura, come hanno dimostrato anni di teoria e pratica, è costretto a sacrificarlo, così come il Nero, per lo stesso motivo, è costretto ad accettare il sacrificio. La lotta, che sempre nella Difesa Siciliana (apertura di cui quella del pedone avvelenato è, appunto, una delle varianti) è accanita, è qui particolarmente violenta e “sanguinosa”. Difficilmente è possibile prevederne l’esito. Chi la gioca deve mettere in conto la possibilità di perdere per un minimo calcolo sbagliato. Se è vero che la Siciliana non perdona, questo vale ancora di più per questa variante. (N.d.A.)

La poesia di Lucio Piccolo: una “tregua” vorticosa e splendente

Lucio Piccolo
©Tano Cuva

“Così conosco una musica dolce nel mio ricordo senza ricordarmene neppure una nota: so che si chiama la partenza o il ritorno.”
D. Campana

Comporre un dialogo con la voce poetica di Lucio Piccolo non significa soltanto scoprire versi sublimi, ma in qualche modo scoprir-si, tra radici vive e volute liriche, all’interno di un possente magnetismo culturale, di un’ariosa sorpresa di pensiero, di un potente incanto della parola. Incanto in cui pure il cosmico carico pensoso si fa “solubile” polvere di suono, a posarsi e spostarsi in danze sillabiche su tempo perduto… continuando (e questo il bello!) a perderlo… tra solenni “ingombri” d’antico e raffinate vitali trame di memoria.
La corolla di questo presente lirico-esistenziale è proprio la memoria: con petali e code di secoli il suo gioco urgente e pulsante, nonché vano, è spalancato su un’oggettività apparente, tutta interiorizzata, sul darsi e negarsi simbolico del mondo… dove la filosofia indaga, la poesia calamita.
E il mondo che entra dal verso di Piccolo è segnato da quella frenesia di forme tipica delle epoche in declino, da un intenso dispiegarsi fenomenologico, tra mito e natura, dove il “sapere” e l’ “essere” (perduto lo smalto d’immota certezza) si danno in dosi cangianti e sonanti di cose, che ne “sorreggono” il mistero, il “nulla d’inesauribile segreto” (Ungaretti), le increspature di morte… gli splendenti frantumi. Eppure nella tensione lirica, nel barocco profondo tra essere e nulla, tra abbraccio vitalistico e abbandono nostalgico, dove rifluisce e si “nasconde” anche l’io lirico, tra morsa romantica del limite (formale, storico ed esistenziale) e slargo d’infinito, si consuma ancora una fiamma simbolica, una residua tensione verso l’alto velata di sogno (assente in Montale) della quale l’oggetto è investito.
Quest’io lirico fuso nelle dolcezze di un’atavica altalena, di un dondolio onirico schiuso sul labile infinito del Novecento, nascosto tra le fronde dei secoli e la mobilia degli anni, appare affine a un altro io lirico che, però, tende non a fondersi e nascondersi, ma a rivelarsi in tutta la sua amorosa ansia soggettiva… S’inseguono le struggenti semine musicali di colori del canto orfico di Campana e di quello barocco di Piccolo… si chiamano le visioni dei Luoghi nella loro luminescenza interiore di suono, nella notte come culla tempestosa e stellata, richiamo di mito e d’ombra: nei Canti Orfici[1] “passano nella veglia opime di messi d’amore, leggere spole tessenti fantasie multicolori, errano, polvere luminosa che posa nell’enigma degli specchi” (La notte); in quelli barocchi[2] “subito allo schermo dei sogni/ soffia in vene vive volti già cenere, parole àfone…/ muove la girandola d’ombre” (La notte).

Paesaggio mediterraneo
©Pablo Picasso

“Su da le pagine risuscitava un mondo defunto, sorgevano immagini antiche che oscillavano lentamente coll’ombra del paralume e sovra il mio capo gravava un cielo misterioso, gravido di forme vaghe, rotto a tratti da gemiti di melodramma: larve che si scioglievano mute per rinascere a vita inestinguibile nel silenzio pieno delle profondità meravigliose del destino” (Dualismo, Lettera aperta a Manuelita Etchegarray).
I cantori del “crepuscolo mediterraneo” imprimono alla parola la luce e il fruscio di un viaggio incessante nella vita, denudata dal mito, accesa dal simbolo, adorna di memoria: non importa, anzi accresce il fascino di quest’affinità, se il viaggiare di Campana è anche inquietamente fisico fino alla definitiva chiusura in manicomio, mentre il viaggiare di Piccolo è quasi esclusivamente culturale e spirituale, nella solitaria apertura della Villa di contrada Vina a Capo d’Orlando (Messina), che non manca ancora oggi di mettere in moto profondi percorsi culturali ed esistenziali, di calamitare “identità in cammino”[3].
E in effetti, la poesia di Lucio Piccolo, maturata nella “tregua” magica della Villa, sembra attingere a un vorticoso nucleo d’assoluto, conducendoci al danzante miraggio della lettura, dove la sostanza barocca dell’esistere e la sostanza sin-estetica di Luce e Suono srotolano lungo il verso un cinematografico nastro di forme che illumina e illude sulla possibilità della poesia di abbracciare “Tutto”.
La grazia di una totalità negata all’uomo contemporaneo anima l’illusione lirica di Piccolo attraverso il ritmo e la visione, in un continuo presente poetico come fondale mobile, “schermo”, “scorrente parete dipinta”, per apparizioni e sparizioni di forme, tra voce per vedere il tempo e luce per sentire lo spazio: “… un attimo ed ecco mutate/ splendon le forme, ondeggian/ millenni” (Mobile universo di folate).
Dal particolare rapporto estetico tra un eterno sfondo d’essere e un travolgente mutamento multiforme, scaturisce, complici i respiri delle inarcature, quell’effetto di ciclica continuità sospesa tipico del verso piccoliano (tipico, a ben vedere, anche dell’interiorità), in cui non si comincia e non si finisce, si cambia di continuo per non cambiare mai… “perenne/ vorticare in frantumi/ veloci, riflessi, barlumi/ di vita o di sogno” (Gioco a nascondere; questo concetto troverà la sua celebre applicazione alla Storia nel romanzo di Tomasi di Lampedusa, ma la poesia di Piccolo ne costituisce la meravigliosa realizzazione estetica).

“Nel guardaroba della natura/ c’è un mucchio di costumi” (Szymborska). Il flusso musicale di metafore e metamorfosi che trasforma, attraverso il “filtro magico” di un fitto intreccio fonico, il tempo perduto in tempo ritrovato, i fantasmi in fratelli, che la sapienza artistica apparenta al sogno: “Sospetto che la luna/ lontana e avvolta pure non tralascia/ gli infiltramenti oltre le mura e pone/ lenta bozzoli di bambagia,/ matasse di filamenti di umori/ albi e lo sa/ la gonna appesa nel sonno di canfora” (Gioco a nascondere). I versi arrivano col fiatone del nulla alato del gioco poetico, con l’ “inutile” urgenza del ricordo e del richiamo, riuscendo a trovare un loro oscillante splendente originale equilibrio tra opposti, a salvare un rimando d’armonia quasi pitagorica, a piantare una scheggia d’universale nel cuore diviso delle cose.
Incontrano, tra gli altri, i passi angosciosamente soggettivi di Campana, che scende a bagnarsi in inferni mitici e sogni barbari, a ferirsi in specchi di occhi di donne e rivedere “magri cavalieri dell’irreale […] dagli occhi perforanti di nostalgie feroci, tutta la grande piazza ardente di un concerto infernale stridente e irritante” (Dualismo, Lettera aperta a Manuelita Etchegarray), “riflettono” e “rispondono” all’inquietudine frantumata d’infinito dell’esoterico Pessoa, ai chiaroscuri ragionati sulla “corda pazza” di Pirandello: “si leverà quando vorrà la Notte/ assunta su le volte/ e le vegliarde e i fusi/ daranno il segno/ sui pendoli, ai quadranti acherontei” (Gioco a nascondere).
L’orologio lirico di Lucio Piccolo è un congegno perfetto che scandisce, come in una solare acrobazia sospesa, come nel distacco coinvolto del sogno, sentimento del tempo e sentimento del contrario, a comporre e scomporre il colorat-oscuro caos della cultura europea del Novecento.
Nel cielo di carta di quella cultura, come in ogni cielo, si possono distinguere raggruppamenti luminosi e, con più fatica, “dove si è cessato di guardare/ o non si guarda ancora”, stelle che brillano in solitudine.
Montale per primo accosta Canti Orfici e Canti barocchi (oltre che per un “afflato, un raptus”) per i “caratteri frusti e poco leggibili” della veste tipografica…
Quei caratteri mi sembrano oggi teneri e beffardi “correlativi oggettivi” di un destino di solitaria grandezza, di “smemorata” esclusione, che autenticamente accomuna Dino Campana e Lucio Piccolo, pur con le dovute differenze e la maggiore fortuna postuma del poeta toscano, pagata però col sangue della patente di matto… Del resto non a tutti la vita concede il lusso di una sana follia in compagnia di benevoli folletti al posto di diabolici parenti e loschi psichiatri!
E mi sembra che quei caratteri “frusti e poco leggibili” ci guardino dal cielo di carta della poesia, come dal cielo sopra Villa Piccolo, invitandoci alla dolcissima fatica della memoria.

 

[1]  I passi citati nel corso dell’articolo fanno riferimento all’edizione Canti Orfici, Corriere della Sera (Un secolo di poesia, 35), Milano 2012.

[2]  Per le citazioni delle opere di Lucio Piccolo si fa riferimento a Canti barocchi e Gioco a nascondere, Libri Scheiwiller, Milano 2001.

[3] “Identità in cammino” era nel 2012 il tema de Le Porte del Sacro, rassegna che si tiene ogni estate a Villa Piccolo.