Cara Simone, caro Jean-Paul,
ancora una volta assieme, anche nel mio tentativo arrogante di cercare un dia-logos col vostro pensiero. Non riesco a scindere e allo stesso tempo a non-scindere la vostra irripetibile unicità, non un gioco dialettico, ma un esercizio di ragione. Vi penso assieme, legati dal filo rosso della complicità. Ecco cosa scrivevi, Sartre, al tuo grande amore: «Sognare ognuno per sé, scrivere l’uno per l’altra», «La mia vita non appartiene a me solo, voi siete sempre me, l’essere stesso del mio essere, il cuore del mio cuore». E ancora: «Non posso essere separato da voi, la mia vita non appartiene soltanto a me, voi siete sempre me stesso e non si può essere più uniti di quello che siamo voi ed io». Il “Castoro”, come amavi chiamare la tua Simone, è la donna inevitabile e l’amore necessario. Tra voi c’è stato un patto di fedeltà, un legame limpido e misterioso: «Sarà così e resterà nella mia vita: avrò amato senza il passionale e il meraviglioso, ma dal di dentro».
La libertà intesa così come la intendevi tu, caro Sartre, porta in nuce qualcosa di meravigliosamente tragico. Avanza con la sua forza un’egoicità che non lascia rivoli di speranza, che trascina l’uomo in un inferno terreno e tutto materiale in cui gli attori sono gli altri in rapporto a noi. Si impone un’inseità aberrante, ma tremendamente vera. Caro Sartre, sono cresciuta provando la tua stessa nausea, riscaldandomi al fuoco di un camino nemico, sentendomi inesorabilmente una passione inutile. Pensare di bastare a sé, nutrirsi della propria libertà come certezza e non come mera possibilità, palesa un amore smisurato per la vita, la stessa che ci procura una totale alienazione. E quanti scacchi, caro Sartre, nel tentare di superare i limiti della nostra razionalità…E misurarsi con l’altro è sempre un atto belligerante, anche quando uno sguardo si alza vestito di bianco ed invia messaggi di pace. C’è guerra nel nostro essere con l’altro, sempre. Anche quando arriva il senso di responsabilità a catturare l’alterità, questa prigionia fomenta il nostro voler essere padroni. Costringere l’altro tra le maglie strette di un amore, ritagliare spazi, luoghi e parole. Cercare invano una mediazione tra l’essere in sé e l’essere per l’altro, scoprendosi come nulla, come angoscia.
Di che colore è l’amore che legava e lega te a lui, cara Simone? (Non riesco a mettere le stesse distanze come con Sartre. Perché tu sei stata più di lui capace di tenerle assieme queste vostre unicità). Forse rosso come le bandiere comuniste oppure nero come il lutto di un tradimento? Magari possiede le sfumature tranquille del blu come una finestra sul mare che nasconde le terrecotte appese ad un filo su pareti bianche come gingilli estivi. Che tonalità possono narrare gli amori contingenti che come giochi si susseguivano senza sosta tra il necessario e l’assolutamente effimero? Ci può essere fedeltà nel tradimento? La disillusione appartiene ad un atteggiamento borghese farcito dal perbenismo dell’educazione e dalla “morale degli schiavi”? Farsi catturare dalla routine e dai vezzi della coppia comunemente intesa avrebbe sporcato la bellezza dei vostri quadri, delle vostre lune asimmetriche stagliate come solchi tra le linee del vostro logos. “To oti” (“questo è”), avrebbe suggerito Aristotele, mentre con dedizione assoluta, cara Simone, non ti allontanavi di un passo dalla sua anima, ma lasciavi spazi nel letto del tuo grande amore, occupandone altri solo per diletto. E c’era il ’68 e poi il ’77, cerimonie di addii da festeggiare, vini da bere, pensieri da rendere al mondo con tutta la forza e l’originalità politica che da sempre vi ha contraddistinti.
Cos’è un bacio di fronte alla possibilità della rivoluzione? Che importanza può avere non aversi, ma aversi per sempre oltre la caducità mondana? Essere l’uno per l’altra e allo stesso tempo non essere che per sé, perché questo presuppone un amore necessario e vero. Non l’inferno della normalità, ma lo straordinario che va oltre ogni convenzione sociale, oltre ogni regola del buon costume vomitevole ed arrogante, oltre la passione. E così siete guariti da voi e dal mondo. Esiste qualcosa di struggente nel ritrovarsi nel necessario e allo stesso tempo sganciare le zavorre del proprio sentire dai simboli, dagli oggetti, dalle clessidre ipnotiche. Esiste un che di magico nel prendere le distanze da un qualcosa che avevi considerato appassionante. Un’esperienza sublime che supera di gran lunga il convincersi che il contingente possa servirci come l’aria. Accettare insomma l’egoicità come esperienza mistica e irripetibile. E tornare a scambiare, come in un gioco, l’orrendo per il bello. È una possibilità del pensiero, come tempo da dedicare al proprio sé per imparare a disprezzare ciò che si crede amore, per relegarlo nel dovuto disprezzo, salvo poi utilizzare con lucidità la sua declinazione di imprescindibilità per provare ad essere felici. E non esiste nulla di più sensuale che il poter scegliere gli amanti e le amanti al proprio amore, un atto di umiltà che fa scendere il paradiso agli inferi. La potenza di Dio, tra gli anfratti infernali del tradimento, non come possibilità, ma come legge terrena che tutto riorganizza in funzione dell’accidente, tenendo però lo sguardo fisso al motore immobile che tutto muove come in una danza di luce, pur rimanendo nel suo egoismo a contemplare sé soltanto.
Vi abbraccio, compagni di un tempo che fu…, immaginandovi all’inferno a dar lotta alle fiamme.