Parole a scacchi

Sulla scacchiera sociale, ci sono partite di civiltà che si giocano con le parole…

ORIENTAMENTO PROFESSIONALE di Maria Rosa Irrera

Caro studente,
se scrivi in modo mediocre, ma possiedi un’incrollabile fede nel fatto di saper scrivere, se i vari errori di ortografia che ancora commetti sono dei refusi…, se, oscillando tra il banale e il patetico, pratichi anestesie concettuali fatali per l’organismo della lingua…, se, per raccontare il peggio della realtà, trovi sempre il modo peggiore (e anche per raccontare il meglio)…, se ignori la differenza tra un riassunto e una recensione, e, che l’Autore sia vivente o meno, trovi sempre il modo di ucciderlo tu, …

allora, sei pronto per intraprendere la carriera giornalistica!

(dieci anni dopo)

… Se la presenza di un politico è sempre “la cosa più importante”…, se “dare la notizia” non è la parte più generosa del tuo lavoro…, se “non ci sono più le mezze stagioni”, d’estate fa caldo e d’inverno fa freddo, …se “contano i fatti, non le parole”…

perché non cambi mestiere?!

Time Out
©Roland La Tuffo Barcsik, 1984

SCACCHI MATTI di Diego Caiazzo

Quella del giornalista è una professione che ha i suoi rischi. Certo tutto sta a saperseli scegliere. Ci sono quelli che rischiano la vita e a volte ce la rimettono, come ad esempio toccò a Giancarlo Siani; ci sono quelli che rischiano di vedere innalzarsi pericolosamente il livello del loro colesterolo a causa di cene più o meno eleganti cui volentieri partecipano. Alcuni di essi si ergono a maestri di vita, ma non tutti ne hanno i titoli. Esempi ce ne sono tanti. Eccone uno. Adriano Sofri, lunedì 29 aprile 2013, su La Repubblica, conclude il suo editoriale sull’attentato a due carabinieri davanti a Palazzo Chigi, durante il giuramento del governo Letta, dicendo che «se gridi ai “politici”: “Siete tutti morti. Sei un morto che cammina”, non stai certo sobillando ad ammazzarli. Ma la volta che uno di loro sia morto e non cammini più, ci resterai male». «Chissà se quarant’anni fa lui è stato male…» è il commento di Libero. Mi costa, ma devo dire che sono d’accordo con Libero, e non capita praticamente mai… Ha la memoria corta, Sofri. Chi ha la mia età ricorda benissimo la violenta campagna di stampa di LOTTA CONTINUA, che precedette l’omicidio Calabresi. Senza voler entrare in argomento, mi pare che un minimo di buon senso gli consiglierebbe il silenzio. Ma no, scrivere su un giornale dà una sorta di ebbrezza, pare che le parole stampate abbiano un’autorità intrinseca, che prescinde da quanto si afferma.
“Letteratura da corsa”, così Clark Gable definisce gli articoli di giornale in un delizioso film del 1958 con Doris Day, Teacher’s Pet, in italiano Dieci in amore, diretto da George Seaton. Il giornalista deve avere il dono della sintesi. Ma la prima caratteristica di uno scritto che si renda pubblico credo sia l’esattezza. Invece sciatteria e superficialità spesso si annidano in particolari apparentemente innocenti. Alcuni giornalisti, soprattutto, scrivono di quello che non sanno e sparano amenità. Non si documentano. Faccio un piccolo esempio. Su un importante quotidiano negli anni novanta c’era una rubrica scacchistica. Più volte trovai scritto: “Il cecoslovacco Short” e “L’inglesina Pia Cramling”. Ora, negli scacchi agonistici, Short all’epoca era il numero 2 del mondo, la Cramling era una delle giocatrici più forti, sempre in campo mondiale, a livello femminile. Bene: il primo era inglese, la seconda svedese! Neanche la pena di controllare… Come scrivere “il brasiliano Maradona!” Tutto questo mi fa pensare a un aforisma che mi pare di aver letto da qualche parte e che dovrebbe fare più o meno così: “Il giornalista è uno che fa del dilettantismo una professione”. Non so chi l’ha detta, forse me la sono inventata io, ma mi piace pensare di no, che sia frutto dell’autoironia di uno dei grandi di questo mestiere… Che, se praticato con umiltà e passione, rispetto della verità e dignità, è quello che distingue una società libera da una comunità di servi.

Zampini e colpi di coda

Neanche il tempo di dare una zampata ai gattopardi, che un nuovo candidato ci mette lo zampino: del resto, si sa, la nostalgia è una brutta bestia… e certe ferite continuano a bruciare.

NEWS DELL’ALTRO REGNO di Ylenia RiparanteCane candidato

ELEZIONI: presentato a sorpresa Giù le mani dalla ciotola, nuovo partito che conta già milioni di Cip, guaiti che chiedono nuove elezioni. Il programma elettorale ancora in fase di formulazione prevede già salde linee guida:
– Garantire più posti di lavoro eliminando contemporaneamente il problema rifiuti;
– Diminuire le tasse, prima tra tutte la proposta della misura sperimentale “animali beni di lusso” ;
– Presentazione alla camera di politici non tanto con il pedigree ma con zampe per terra, niente grilli per la testa, si accetta al massimo qualche pulce;
– Introduzione di modalità libere di pagamento con nuovi sistemi di scambio con moneta unica COCCOLE E BACI (possibilità di pagamento rateizzato IVA 0%);
– PELO libero per Tutti e dappertutto.
Leader del partito politico: PEPITO, già imprenditore delle ditte: Unghie e zampa, ruspe per il tuo giardino, Zamplifex divaniUrinalà, nuovi sistemi di irrigazione e Investigazioni Pepito, dacci una traccia e troviamo anche gli scheletri nell’armadio.
Il leader si dichiara fiducioso, in fondo, in casa, essendo l’unico cagnolino, ha già la Maggioranza!

FANTOZZI AL VOTO di Diego CaiazzoFantozzi

Lunedì 25 febbraio 2013, ore 12.
Fantozzi uscì di casa determinato a compiere un gesto dadaista: votare Grillo! Dopo una notte di tormenti e di indecisioni finalmente si era deciso: avrebbe mandato tutti col sedere per terra!
Lunedì 25 febbraio 2013, ore 12,05.
Fantozzi entrò come un automa nella cabina. Stava per compiere il suo sfregio alla classe politica di cui non aveva più stima votando per Grillo come grido di dolore quando all’improvviso, gli apparve (come a Costantino in sogno, prima della battaglia di Ponte Milvio, la croce con su scritto “IN HOC SIGNO VINCES”) il simbolo della falce e martello! E ricordò le manifestazioni, le letture di Rinascita a scuola, a dispetto dei Padri Domenicani che la gestivano, i Festival dell’Unità e i panini con le salamelle che aveva mangiato insieme coi “compagni”, i primi tornei di scacchi giocati nella locale sezione del PCI e della FGCI. Nella sua mente cominciarono a suonare le note di Bandiera rossa, l’Internazionale, l’inno dell’Unione Sovietica (bellissimo!) e Funiculì funiculà cantato dal coro dell’Armata Rossa! E infine, paterna, la voce di Bersani che lo rassicurava: il sol dell’avvenire era vicino…
Così, in preda ai fumi guasti dei ricordi degli anni settanta, prigioniero della sua giovinezza, mise la croce sul simbolo del PD.
Lunedì 25 febbraio 2013, ore 12,30.
Tornato a casa Fantozzi diede uno sguardo al calendario: non era il 1975. Si mise a letto con un gran mal di testa. Sua moglie, la signora Pina, gli portò il Corriere dello Sport, per farglielo leggere quando gli fosse passato. Sua figlia Mariangela giocava con l’iPad…

CACCIA ALLE STREGHE di Maria Rosa IrreraGiudici Berlusconi

Le streghe (notoriamente femministe e comuniste), dopo essersi riunite la notte di S. Giovanni per lo storico sabba milanese, hanno deciso di rompere lo specchiospecchiodellemiebrame di Silviolo e condannarlo a sette anni di s-figa. Il perverso rito processuale ha un evidente significato politico e appare come un’ingiustificata e diabolica presa di posizione contro un’innocua cultura maschilista millenaria, e un’ altrettanto innocua presa per il culo ventennale di tutto il popolo italiano. Si tratta della tardiva vendetta personale di una sparuta frangia estremista di streghe troppo abbronzate per via di quelle sfortunate “lampade magiche” ormai cadute in prescrizione.

Palermo, 23 Maggio 2013. “Infiorata” di primavera

Foto Francesco Baiamonte 

A maggio, nelle strade e nelle piazze di Palermo fioriscono ragazzi dai sorrisi profumati di speranze. Il primo luogo a sbocciare è il porto: braccia che sventolano dalle “navi della legalità” come bandiere al vento impalpabile e delicato del futuro, nell’abbraccio festoso del cielo siciliano. Altre braccia rispondono dalla banchina, altri sorrisi arrivati da ogni parte d’Italia, legati dal filo d’oro dell’entusiasmo e dell’impegno contro ogni ostacolo alla realizzazione dei loro sogni: che siano loro gli Italiani finalmente “fatti”, che Massimo D’Azeglio auspicava nell’Italia ormai nata?
In effetti, si assomigliano tutti, come fratelli: sono teneri ma decisi, leggeri ma seri, gioiosi ma caparbi e determinati a raggiungere la loro meta.
Sono fra loro anche gli allievi del Liceo Scientifico “G. Galilei” di Spadafora (Messina), protagonisti entusiasti e consapevoli di un percorso di alto valore educativo, iniziato fra le pareti delle loro modeste aule, in mezzo alle difficoltà che ogni scuola pubblica conosce, ma sostenuti dalla passione e dalla fede degli invincibili anni della giovinezza. Hanno toccato con mano il lato oscuro del loro territorio, si sono imbattuti in storie difficili e drammatiche, di cui, benché tanto vicine, non sospettavano l’esistenza, ma dalle quali hanno saputo trarre monito e speranza.
Ora sbarcano, confusi in un mare di emozioni, invadono Palermo, come a riprendersi la terra che il destino ha da sempre assegnato a loro, come ad abbracciarla dopo aver rischiato di perderla per via dell’interminabile scempio che ne è stato fatto, come a ritrovarne il volto straordinariamente bello, nonostante le ferite e gli oltraggi lungamente patiti.
Non c’è dubbio: oggi questa primavera ha l’espressione dei loro volti, questo vento la musica della loro voce; e, forse, era maggio anche quando Abd ar-Rahmàn, poeta arabo di Sicilia, dieci secoli fa, ne ricordava, esule, la fertile bellezza:

… sopra i rami, i frutti
tremavano qual seni di ragazze belle
e come rami di salice ben snelle.[1]

 

 

 


[1] M. Freni, Il giardino di Hamdìs, Sellerio Editore, Palermo 1992, p. 14.

 

Sicilia Cenerentola

“Non cianciri bedda, non è cosa bona
ora tu vai unnì si balla e si sona”
un coppu i bacchetta cù tutta a sò fozza
e un casciabancu divintau carozza
[1]

Villa Piccolo
Villa Piccolo in un acquerello

Di fronte a continue minacce di sciagure culturali, tra cui la chiusura dell’amata Villa Piccolo, e alla generale e istituzionale incapacità di formulare interrogativi vitali sul proprio e altrui passato, presente e futuro, propongo una riflessione che, seguendo lievi tracce linguistiche tra italiano e dialetto, dialoga giocosamente sul “nuovo” e l’ “antico”, sulla speranza e la disperazione; a suggerire la possibilità (e la necessità) d’una riscoperta culturale autentica.
Quando leggiamo e scriviamo, sogniamo e giochiamo, quando amiamo… la vita diventa il nostro vasto presente.

C’è un proverbio siciliano che riconosce alla zucca (cucuzza) molte forme e una sola sostanza, con una perentorietà sapienziale e spietata potenzialmente capace di scoraggiare persino la libertà creativo-maieutica della s-memorabile fatina di Cenerentola. E’ una vera fortuna che la dea ex machina della fiaba sulla metamorfosi per eccellenza, non si sia mai trovata a passare da queste parti: non abbia mai visto esercitare l’arte della disperazione una nonna ai fornelli o una vecchia volpe (pardon, gattopardo) alla principesca scrivania. E se oggi è il dialetto a far le veci della cenerentola, cucuzza multiforme (non meno dell’ingegno di Ulisse), ma anche solido, essenziale veicolo di nette eppure ombrose verità, non si negherà ai giovani siciliani, a causa della pronuncia innaturale, la possibilità dell’amore per le voci che magari hanno solo annusato nei baci dei nonni. (Ho sentito di una nonna che, nell’accogliere l’italianissima nipotina, le diceva “ciaurusa”).
Non si negherà loro il sentirsi figli di Pirandello, ovvero figli di verità che non possono essere nette, ma restano ombrose negli specchi infiniti (anche linguistici) che frantumano e ricreano le forme del loro essere-non essere siciliani. Si riconoscerà piuttosto alla loro ricerca di verità umano-artistica la capacità d’innamorarsi del dialetto, senza prendere il metro per misurarne la distanza dai propri mondi, semmai prenderanno la metrica e salteranno di slancio la corda (pazza).
Non c’è bisogno di sperare che la carrozza dell’italiano si trasformi di nuovo nella cucuzza del dialetto: il lieto fine omologato dell’Italia alfabetizzata e mai così ignorante, non impedisce a un bambino d’inventare una nuova parola, e a una bimba magno-greca di scoprire intuitivamente il legame misterioso tra eros polemos thanatos, quando fa sciarriare nel gioco principi e principesse.
Mi chiedevo dunque (e non vorrei sembrare polemica e piena di sassolini nella scarpetta, ma solo una, nessuna e … che si esercita, almeno fino allo scoccare della mezzanotte, nell’arte dell’alternativa)… non si potrebbero variare le morte ricette autocelebrative di molti eventi culturali, e improvvisare, a partire dalla forza irriverente ed esoterica del dialetto, una bella seduta spiritica nello stile dei fratelli Piccolo per evocare gli spiriti di tutti i poeti, gli scrittori e tutti i pazzi di Sicilia (senza, beninteso, allisciari u pilu ai gattopardi)?
E il medium sarebbe l’italiano o il dialetto? Carrozza per cucuzza, cucuzza per carrozza, se vogliamo che tutto rimanga com’è….

Pattiu a figghia vistuta d’oru e d’argentu
nà stidda paria dù firmamentu
a unnì annau puttau luci e splendori
e ò principi azzurru ci trasiù ‘ntò cori

 

[1] I versi riportati all’inizio e alla fine dell’articolo sono del poeta dialettale Pippo Bonaccorso.

La verità sbattuta di Battiato

F. BattiatoLa vicenda di Franco Battiato, al di là del rapido consumo mediatico ed epilogo politico, lascia, o meglio rinnova, interrogativi e sconforti in quella tenace minoranza dedita, per passione e “mestiere”, alla parola… La poesia, infatti, non sarà il mestiere piu’ antico del mondo, neanche il piu’ remunerativo o popolare, ma custodisce e ravviva, nel tempo e nella cultura, una possibilità preziosa per l’essere umano: dire la verità. “Verità” intesa non come rigida, ma storicamente mutevole, costellazione di contenuti, ma come ricerca personale, gratuitamente faticosa e profonda, di significati e modi per la propria e altrui esperienza umana. E’ evidente come i linguaggi ai quali siamo socialmente esposti si discostino nettamente da questi criteri: siamo diventati vittime e carnefici di continue, piu’ o meno accurate, operazioni pubblicitarie … Il pericoloso marketing identitario dei media, a vari livelli, invade e, peggio, struttura la comprensione del mondo: buoni/cattivi, vincenti/perdenti, amici/nemici/amici di Maria, nominati/indicibili… Dal talent al giornalismo “serio”, tutto fa leva sul “personaggio”, e sulla sua capacità di vendersi mediaticamente. Il cane si morde la coda, e spesso la comunicazione diviene un abbaiare. Can che abbaia…? Essendo la vita politica italiana già satura di bestialità, posiamo nel bosco l’osso del punto interrogativo.
Torniamo alla poesia: essa ci ricorda che la Libertà e la Dignità umane sono il peggior “prodotto” possibile; ma, proprio per questo, non consegna verità cotte e mangiate, solo percorsi possibili problematici, aperti e luminosi d’arte… Mentre il rappresentante di un prodotto rap-presenta, appunto, il prodotto stesso come condicio sine qua non per attingere a sterminate, quanto inverosimili e omologate, possibilità esistenziali (si veda, ad esempio, l’uso del concetto di “libertà” nelle raffinate pubblicità delle auto), il poeta, invece, non viene a vendere l’infinito scontato su un pezzo di carta… dicendo “Immagina, puoi”. Il poeta è il primo ad essere consapevole dei limiti del suo infinito, dei demoni della sua creazione. Non li nasconde, anzi li trasforma in energia vitale di verità, in com-prensione creativa degli opposti, prima di tutto interiori. Ecco perché ci sono anni luce di verità tra un rigo di poesia e un intero discorso promozionale (politico, religioso, commerciale), volto essenzialmente a rassicurare sul fatto che i brutti e cattivi sono gli altri.
La verità dell’Arte rasenta di continuo il paradosso e la pietas, figli naturali di un sentire in profondità le contraddizioni della vita. Non si può non essere a disagio, dunque, nella volgarità del pensiero (ben piu’ opprimente di quella, occasionale, delle parole), che passa spesso e volentieri dalla retorica in malafede del “fare” (basata proprio sull’ostentatazione mediatica, per mezzo delle bistrattate “parole”…); non si può non rinnovare questo disagio di fronte alle bizzarre e stolide parabole ascendenti o discendenti di personaggi che passano, con la tipica, di volta in volta, spettacolare crudele connivente, superficialità dell’attuale informazione, dalle stelle alle stalle e viceversa (col rischio che, in quest’ultimo caso, la merda cada dall’alto).
In questa deprimente situazione culturale, il paradosso di un Artista inchiodato alla logora parola magica del maschilismo, ricorda quanto sia difficile dire la verità; quanto resti fragile la lucreziana possibilità di percorrere con la propria parola strade mai battute da altri. L’unica cosa che si può allora rimproverare a Battiato, è di non aver trovato un modo meno culturalmente stantio, piu’ fantasioso e coerente, di esprimere la disapprovazione per quel determinato modello culturale che fa del vender-si un modus vivendi, e che costituisce il vero problema della nostra società.
Un’occasione persa per “dimostrare” che la poesia è il mestiere piu’ antico, e piu’ nuovo, del mondo.
Certe cose non si possono comprare…