Palermo, 23 Maggio 2013. “Infiorata” di primavera

Foto Francesco Baiamonte 

A maggio, nelle strade e nelle piazze di Palermo fioriscono ragazzi dai sorrisi profumati di speranze. Il primo luogo a sbocciare è il porto: braccia che sventolano dalle “navi della legalità” come bandiere al vento impalpabile e delicato del futuro, nell’abbraccio festoso del cielo siciliano. Altre braccia rispondono dalla banchina, altri sorrisi arrivati da ogni parte d’Italia, legati dal filo d’oro dell’entusiasmo e dell’impegno contro ogni ostacolo alla realizzazione dei loro sogni: che siano loro gli Italiani finalmente “fatti”, che Massimo D’Azeglio auspicava nell’Italia ormai nata?
In effetti, si assomigliano tutti, come fratelli: sono teneri ma decisi, leggeri ma seri, gioiosi ma caparbi e determinati a raggiungere la loro meta.
Sono fra loro anche gli allievi del Liceo Scientifico “G. Galilei” di Spadafora (Messina), protagonisti entusiasti e consapevoli di un percorso di alto valore educativo, iniziato fra le pareti delle loro modeste aule, in mezzo alle difficoltà che ogni scuola pubblica conosce, ma sostenuti dalla passione e dalla fede degli invincibili anni della giovinezza. Hanno toccato con mano il lato oscuro del loro territorio, si sono imbattuti in storie difficili e drammatiche, di cui, benché tanto vicine, non sospettavano l’esistenza, ma dalle quali hanno saputo trarre monito e speranza.
Ora sbarcano, confusi in un mare di emozioni, invadono Palermo, come a riprendersi la terra che il destino ha da sempre assegnato a loro, come ad abbracciarla dopo aver rischiato di perderla per via dell’interminabile scempio che ne è stato fatto, come a ritrovarne il volto straordinariamente bello, nonostante le ferite e gli oltraggi lungamente patiti.
Non c’è dubbio: oggi questa primavera ha l’espressione dei loro volti, questo vento la musica della loro voce; e, forse, era maggio anche quando Abd ar-Rahmàn, poeta arabo di Sicilia, dieci secoli fa, ne ricordava, esule, la fertile bellezza:

… sopra i rami, i frutti
tremavano qual seni di ragazze belle
e come rami di salice ben snelle.[1]

 

 

 


[1] M. Freni, Il giardino di Hamdìs, Sellerio Editore, Palermo 1992, p. 14.

 

Per le vittime della mafia

Gli Ulivi secolari
©Letizia Lisi, 2013

Adagiateli
sotto la nenia
antica
degli ulivi
ché le nostre braccia
raggrinzite
non sanno cullare lamenti

e per l’urlo
sospeso
delle ferite
non trovano gli occhi
acque lustrali.

Adagiateli
dirimpetto alla luna.

 

 

Il lamento della terra e la carezza della luna

La terra tende le sue braccia e avvolge, in un notturno mesto e amoroso, corpi che nessun vivo, piagato nell’anima, ha la forza di sorreggere, come nessuna fonte può purificare l’oltraggio del dolore inflitto agli innocenti.
Solo il lamento fraterno degli ulivi e la luce serena della luna possono, come sacerdoti di un rito antico e pietoso, sfiorare i volti degli agnelli sacrificali e proteggerli nella quiete di una terribile immortalità.

Sicilia Cenerentola

“Non cianciri bedda, non è cosa bona
ora tu vai unnì si balla e si sona”
un coppu i bacchetta cù tutta a sò fozza
e un casciabancu divintau carozza
[1]

Villa Piccolo
Villa Piccolo in un acquerello

Di fronte a continue minacce di sciagure culturali, tra cui la chiusura dell’amata Villa Piccolo, e alla generale e istituzionale incapacità di formulare interrogativi vitali sul proprio e altrui passato, presente e futuro, propongo una riflessione che, seguendo lievi tracce linguistiche tra italiano e dialetto, dialoga giocosamente sul “nuovo” e l’ “antico”, sulla speranza e la disperazione; a suggerire la possibilità (e la necessità) d’una riscoperta culturale autentica.
Quando leggiamo e scriviamo, sogniamo e giochiamo, quando amiamo… la vita diventa il nostro vasto presente.

C’è un proverbio siciliano che riconosce alla zucca (cucuzza) molte forme e una sola sostanza, con una perentorietà sapienziale e spietata potenzialmente capace di scoraggiare persino la libertà creativo-maieutica della s-memorabile fatina di Cenerentola. E’ una vera fortuna che la dea ex machina della fiaba sulla metamorfosi per eccellenza, non si sia mai trovata a passare da queste parti: non abbia mai visto esercitare l’arte della disperazione una nonna ai fornelli o una vecchia volpe (pardon, gattopardo) alla principesca scrivania. E se oggi è il dialetto a far le veci della cenerentola, cucuzza multiforme (non meno dell’ingegno di Ulisse), ma anche solido, essenziale veicolo di nette eppure ombrose verità, non si negherà ai giovani siciliani, a causa della pronuncia innaturale, la possibilità dell’amore per le voci che magari hanno solo annusato nei baci dei nonni. (Ho sentito di una nonna che, nell’accogliere l’italianissima nipotina, le diceva “ciaurusa”).
Non si negherà loro il sentirsi figli di Pirandello, ovvero figli di verità che non possono essere nette, ma restano ombrose negli specchi infiniti (anche linguistici) che frantumano e ricreano le forme del loro essere-non essere siciliani. Si riconoscerà piuttosto alla loro ricerca di verità umano-artistica la capacità d’innamorarsi del dialetto, senza prendere il metro per misurarne la distanza dai propri mondi, semmai prenderanno la metrica e salteranno di slancio la corda (pazza).
Non c’è bisogno di sperare che la carrozza dell’italiano si trasformi di nuovo nella cucuzza del dialetto: il lieto fine omologato dell’Italia alfabetizzata e mai così ignorante, non impedisce a un bambino d’inventare una nuova parola, e a una bimba magno-greca di scoprire intuitivamente il legame misterioso tra eros polemos thanatos, quando fa sciarriare nel gioco principi e principesse.
Mi chiedevo dunque (e non vorrei sembrare polemica e piena di sassolini nella scarpetta, ma solo una, nessuna e … che si esercita, almeno fino allo scoccare della mezzanotte, nell’arte dell’alternativa)… non si potrebbero variare le morte ricette autocelebrative di molti eventi culturali, e improvvisare, a partire dalla forza irriverente ed esoterica del dialetto, una bella seduta spiritica nello stile dei fratelli Piccolo per evocare gli spiriti di tutti i poeti, gli scrittori e tutti i pazzi di Sicilia (senza, beninteso, allisciari u pilu ai gattopardi)?
E il medium sarebbe l’italiano o il dialetto? Carrozza per cucuzza, cucuzza per carrozza, se vogliamo che tutto rimanga com’è….

Pattiu a figghia vistuta d’oru e d’argentu
nà stidda paria dù firmamentu
a unnì annau puttau luci e splendori
e ò principi azzurru ci trasiù ‘ntò cori

 

[1] I versi riportati all’inizio e alla fine dell’articolo sono del poeta dialettale Pippo Bonaccorso.