Minima

Higher ConsciousNest
©Duy Huynh, “Higher ConsciousNest”

Cosa farò di questi scampoli
di tenerezza:
sono diventata una sarta del disordine

di rimasugli di senso
in fondo al cuore

quando il taglio malfermo
di ogni parola
annuncia

il prossimo abbozzo
di me…

intanto avrò la pazienza
di farmi
da briciola lasciata cadere
lungo il sentiero

dimora dolce
per le vele dei tuoi pensieri?

 

 

 

Il multibambino

SimpsonNon c’era una volta, ma ora c’è il multibambino.
Vive in un paese dove tutti, non sapendo esattamente cosa fare, vanno sempre di fretta, tanto da non potersi chiedere nemmeno il perché; comprano un po’ di tutto, che, non si sa mai, può servire prima o poi, e creano bambini che si devono sbrigare a diventare come loro, pena terribili castighi, come l’invisibilità.
Il multibambino non ascolta storie, perché, naturalmente, nessuno può perdere tempo a raccontargliene; non gioca in strada, perché, come si sa, è pericoloso e, del resto, non vi si trova più nessuno con cui condividere il gioco; non si deve sporcare né fare alcun «passo falso», perché vallo a trovare il tempo di rimediare!
Ma non è che egli stia con le mani in mano, anzi in mano ha sempre un magico apparecchietto che gli apre il mondo: il multibambino, infatti, non vede nulla che non gli salti fuori miracolosamente dal suo apparecchietto, tanto che non sa che farsene del guardarsi intorno, esercizio dannoso che gli farebbe perdere del tempo.
Talvolta, a dire il vero, gli vengono strani desideri di cose che non fa: soffiare in un fischietto, arrampicarsi su un albero, lanciare un sasso in mare (va a capire da dove gli arrivano, visto che il suo apparecchietto non registra queste alternative!), ma, siccome si tratta di attività non previste né programmate, qualche multiadulto, che ci è passato prima di lui, lo riporta velocemente alla realtà, ricordandogli che è l’ora della palestra o dei compiti o della visita oculistica (spesso ha problemi agli occhi) o della festicciola di compleanno di un compagnetto multibambino, ed esortando ogni volta a sbrigarsi, perché non c’è tempo da perdere.
In questi casi di pericolo, per tutelarlo ventiquattro ore su ventiquattro anche in assenza di un multiadulto, dal suo apparecchietto si sprigiona un’essenza soporifera che gli caccia via in fretta ogni inopportuna fantasia.

Anche la scuola frequentata dal multibambino è una multiscuola: si passa di corsa da un argomento all’altro, da un progetto all’altro, da un’attività all’altra; alla fine vince chi è riuscito a correre di più; perciò, se il multibambino si azzarda per caso a fermarsi per riflettere, perché malauguratamente è incappato in qualche dubbio o, peggio ancora, in qualche distrazione pericolosamente reale (un fiore spuntato sull’albero del giardino, una farfalla o un’ape sul vetro della finestra), si accende una lucina rossa sul provvidenziale apparecchietto, che invita a non perdere tempo, se si vogliono evitare punizioni, anche molto severe: infatti, nel caso che il rosso diventi arancione, si va incontro all’espulsione dalla prestigiosa multiscuola.

Insomma, tutto funziona alla perfezione, per la gioia di tutti i multiadulti, fino a che un giorno una strana maestra, capitata lì per chissà quale strano caso (certo, una maestra antica, all’oscuro dell’esistenza dei multibambini e dei loro sorprendenti apparecchietti), non lascia uno strano compito che chiede di spiegare con «parole proprie» cosa sia un «bambino».
Il multibambino resta totalmente disorientato soprattutto dall’espressione «parole proprie» (dove trovarle?);  poi, come al solito, preme i tasti del suo magico apparecchietto, ma, per quanto li colpisca tutti ripetutamente e sempre più freneticamente (si rende conto, infatti, che sta perdendo molto tempo), il display con impietosa monotonia continua a segnalare «voce non trovata». La stessa cosa accade per il termine «bambino», per il quale, tuttavia, gli balena per un istante un’ipotesi: che sia un esserino rachitico destinato a non diventare mai multiadulto?
Infine, dopo interminabili momenti di un’angoscia mai provata prima, il multibambino conclude, con una convinzione che lo riporta alla sua sicurezza apatica, che, se il suo fedele apparecchietto  non dà risposte, termini come «parole proprie» o «bambino» sono solo un trucco perditempo di una maestra perditempo, appassionata di domande strane, per le quali evidentemente non possono esistere risposte.
Così, senza rendersene conto, fa un gran passo avanti verso l’agognata condizione di multiadulto.

“La Via Lattea” di Diego Caiazzo: costellazioni di desideri tra cielo e carne

La Via LatteaTutti le guardano, pochi le vedono… Le stelle e le donne. E ci voleva la potente e tenera metafora del titolo del libro di Diego Caiazzo, La Via Lattea (Lupi Editore, Sulmona 2016), a smuovere mezzo secolo di vita e di storia, ad aprire la serratura di giorni sorpresi tra una metrica microscopica materna e la danza galattica degli Eventi.[1] L’invito dell’Autore al ballo della Storia (e della sua storia) è garbato e travolgente: ci guida tra spartiti e spaccati intimi ed enciclopedici di cose con la sicurezza di chi si è più volte perso e ha fatto di questa sua sublime sconfitta di fronte al mondo un’arte per poterlo rimappare.

Una rimappatura poetica, tra infinitamente piccolo[2] e infinitamente grande[3], tra selvagge vicinanze (fusioni) e sterminate distanze di mistero (scissioni) alla base della stessa vita; tra sensualità estatica, preghiera materica, ironia chirurgica, le tessere liriche de La Via Lattea vanno componendo un discorso-mosaico sul de-siderium… “Sentire la mancanza delle stelle”: Diego Caiazzo declina poeticamente questa nostalgia, che poi coincide con la nostalgia del corpo (della madre, dell’amante, soprattutto del proprio nel corpo altrui).[4] La parola si protende allora a esplorare e ricreare, attraverso scale di versi e tirando in ballo vari personaggi storici, il gioco di desiderio alla base della vita e, quindi, della scienza, della religione, degli scacchi, della musica, della guerra e dell’amore. Non c’è, del resto, “oggetto” di studium più vicino e più lontano, minimo e  profondissimo, intimo ed estraneo, potente e vulnerabile, prossimo e irraggiungibile come il corpo dell’Altro.

La scoperta poetica di Caiazzo consiste così in una realtà che, anche quando si gioca a dipanarla come litania prosaica con le sue straniate “istruzioni per l’uso”, perde la sua “gravità” e si sposta, con vigorosa levità, tra i tasti della Storia e delle storie. Proprio questa “toccata” nel prosaico e “fuga” nel poetico fa sì che l’amore e il dolore non siano mai fantasmi esangui da manuale, ma spicchino come concrete tessere senza tempo del gioco di essere umani. Al lettore, gentilmente invitato a fare la prossima mossa, arrivano con la loro ipotesi d’umoristica universalità… “Si sa,/ scrivere è un tentativo/ di sopravvivere a sé stessi”[5]
Come andrà il tentativo? La risposta sta nel desiderium del lettore.

[1] “Quando sono nato io/ il 25 ottobre del 1955/ il Papa era Pio XII/ […] in quel momento/ non conoscevo altro/ che il dolore/ e la felicità/ e la stanchezza/ e il sudore/ e l’odore/ e il calore/ e l’amore/ di mia madre”. D. Caiazzo, La Via Lattea, Lupi Editore, Sulmona 2016, p.19.

[2] “[…] e davvero la vita può cambiare/ per un’inezia/ una parola non detta/ un soffio di vento”. Ivi, p. 60.

[3] “950 anni fa nell’anno 1054/ in un cielo indicibilmente remoto/ esplose una stella gigantesca”. Ivi, p. 26.

[4]  “[…] tutto quello che sentiamo/ ora è il nostro odore/ trasferitosi nell’altro corpo”. Ivi, p. 21.

[5] Ivi, p. 58.

La pancia democratica tra consumo e controllo

Satyricon
Satyricon (1969) di F. Fellini

Il prolungato risveglio in un mondo molto più brutale di quello che l’amore per la vita e per la letteratura aveva (complice l’astro della giovinezza) disegnato, buona stella sotto la quale era nata anche Lolitaca, mi obbliga a immensi silenzi, dirada la poesia e mette sale d’interrogativi sulle ferite del presente. Diventa importante, in particolare, esplorare l’inquietante relazione tra consumo di conoscenze e incapacità di conoscenza, e quindi di scelta tra bene e male. Ovvero, non solo l’alfabetizzazione di massa, la divulgazione dei saperi attraverso nuovi e molteplici mezzi, non sembrano avere ricadute etiche, nutrire i vissuti, ma anzi sembrano favorire uno stordimento occidentale che delega ai freschi dogmi della tecnica e delle specializzazioni il dovere-diritto di una crescita personale come continua scoperta d’identità in relazione.
La “magia della scienza” si fonde così a vecchi istinti religiosi in un limbo di credenze che mascherano sempre peggio la loro vera natura di rituali di controllo di una Precarietà allargata e “fatale”. Sappiamo sì se l’amico ha letto il nostro messaggio grazie alla doppia spunta blu, ma non sappiamo un tubo del nostro amico. Né di noi stessi. La vorace dinamica controllo-incontrollabilità fagocita la possibilità della conoscenza, amplifica quella della violenza; gli spot pubblicitari diventano sempre più le nostre parabole, e, venendo meno i modi e i tempi del conoscere, non possono che essere parabole sulla prestazione. Ma non si tratta delle prestazioni del prodotto… Il prodotto, al contrario, veglia sulle nostre prestazioni, si autocandida a collante identitario, vincendo facile (ad esempio, unifica e prescrive le prestazioni di donna, professionista e mamma, e quelle dei componenti di una famiglia e di una cultura); scandisce l’autocombustione dell’istante in quel nostro presente eterno che sostituisce la possibilità dell’essere presenti a noi stessi. Il prodotto-corpo e il prodotto-cultura sono i più sciagurati, ma anche quelli che meglio rivelano le crepe di questo modello, in una contraddizione che potrebbe diventare la base logistica per lanciare la sonda dell’intelligenza emotiva alla riconquista di uno spazio umano.

Pancia democraticaIntanto l’ignoranza (in)controllata rimbomba nei giganteschi processi di eroizzazione – mostrificazione dei media: è inaccettabile che uno sia una persona onesta: deve essere un eroe; e quel “bravo ragazzo” che a(m)mazza la moglie? E quell’ “emergenza” che dura da ottant’anni?
La cartuccera delle etichette linguistiche rivela la sconfitta della possibilità di trovare una misura umana, che recuperi l’autenticità del rapporto tra essere e dire, che consenta di ri-conoscere e comunicare noi stessi, l’altro e la realtà fuori dall’ansiogena ruota delle circostanze e della serialità esistenziale prodotta dall’omologazione. In definitiva, spariamo l’impossibilità di significare il mondo. Se il mondo non è significato dall’uomo è significato dal potere, anzi dai poteri, e da chi fa risuonare ben altri spari.

Noi ci accontentiamo di… “valere”: del resto tra lavoro-che-non-c’è, studio-che-non-serve (e si vede!) e trattamenti estetici non è che resti molto tempo! Come criceti sulla ruota della prestazione, con l’aggravante della “sincerità”, cioè di quella rappresentazione arbitraria e narcisistica che il criceto spaccia di corsa agli altri criceti. Al vuoto di comprensione si affianca così anche l’oppio dell’opinione, quell’equivoco democratico per il quale il diritto d’espressione si sostituisce alla responsabilità di capire, approfondire, ricreare, in definitiva, un rapporto con la verità… che, in assenza di una ricerca, diventa slogan e prende lo stomaco. Uno stomaco a forma di portafoglio sembra presiedere alle scelte pubbliche e private. Non ci resta che sperare nel mal di pancia.

U mostru nustranu (Il mostro casereccio)

Ciplope
F. Rachmuhl, C. Gastaut, “Odissea, Il viaggio di Ulisse”, WS Kids

Stu mostru è tutt’u nostru,
l’avemu dintr’a casa,
‘nta terra di Sicilia,
e nuddu facia casu.

Arriva lu giganti,
sintiti lu so’ passu,
mmucciativi, carusi,
chì pari siddiatu!

O mamma, quant’è ranni,
nni pari na muntagna!
Ma comu potti crisciri
nu lignu tant’amaru!

Eppuru c’è nu Grecu
chi non s’arrenni mai
e usa la so’ testa
pi nnesciri di guai.

Vaddati chi s’inventa
pi sé e i so’ cumpagni:
ci offri tantu vinu
pi’ farlu ‘mbriacari.

E poi ci scippa l’occhiu
chi, tantu, non sirbia,
picchì, cu facia u mali,
ormai nun ci vidia.

E bravu, Ulissi, evviva!
Vincisti n’autra vota,
e nni nsignasti ancora,
cu fatti e non paroli,

chi, cu cummatti, scampa
e cu s’arrenni, mori.

 

Il mostro casereccio

Nessuno
F. Rachmuhl, C. Gastaut, “Odissea, Il viaggio di Ulisse”, WS Kids

Questo mostro è tutto nostro,
ce l’abbiamo dentro casa,
nella terra di Sicilia,
e nessuno gli badava.

Arriva il gigante,
sentite il suo passo,
nascosti, bambini,
ché sembra di sasso!

Mamma, quant’è enorme,
sembra una montagna!
Ma com’è cresciuto
tanto velenoso!

Eppure c’è un Greco
che non gli si arrende
e usa la testa
per trarsi dai guai.

Guardate che inventa
per sé e i suoi compagni:
gli offre del vino
per farlo ubriacare.

E poi gli cava l’occhio
che, tanto, non serviva,
perché, facendo il male,
non ci vedeva mica.

E bravo, Ulisse, evviva!
Hai vinto un’altra volta,
e ci hai insegnato ancora,
a fatti e non parole,

che, chi combatte, scampa
e chi si arrende, muore.