“Una Storia Sbagliata”: lo spettacolo “giusto” di G.G. Boncoddo

Una Storia SbagliataCome si trasforma Una Storia Sbagliata nello spettacolo “giusto”?
Hanno risposto l’autore e regista Giovanni Gionni Boncoddo e gli attori della Nuova Compagnia dei Giovani con lo spettacolo andato in scena il 10 Maggio scorso presso il Teatro Annibale Maria di Francia di Messina. O, meglio, hanno fatto le domande “giuste”: l’indagine dei commissari Volontè e Mecca intorno all’omicidio di Maria Tedesco è, infatti, ricerca di verità, ma, come sempre avviene nella “finzione” dell’Arte, la verità, e quindi la giustizia, che viene cercata non coincide col nome del colpevole, ma è attraversamento lacerante di sfumature emotive che vengono a galla attraverso il gioco di specchi dei personaggi, la raffinata maieutica dei dialoghi; è discesa in inferni interiori che vivono sulla scena la loro consistenza d’ombra… È, a prescindere dalla “soluzione” del caso, uno schiaffo alla banalità della nostra società, all’impossibilità di “incontrarsi” in modo significativo e rispettoso, all’impossibilità di dare corpo al sogno: allora, un racconto di sesso, amore e morte, diviene un accamparsi coraggioso sull’orlo di un abisso, circumnavigazione e penetrazione del caos della protagonista, la cui identità riemerge, dopo un unico intenso monologo, dalle voci dei vari testimoni; il “non sapere” dell’indagine (della poesia e della vita) fecondo, anche se maledetto, recupero di “prospettiva” contrapposto all’appiattimento del pensiero e della parola, non meno opprimente nei giorni del lampo della tragedia, della quale è la causa più profonda.

I dialoghi sono dunque riverberi di una verità emotivamente complessa e scomoda, quella del rapporto malato tra un padre e sua figlia, che si lega e intreccia ai vissuti e alle inquietudini dei vari personaggi… in particolare del commissario Volontè, vicino di casa della ragazza uccisa e poi violentata (come viene ripetuto ossessivamente a scandire lo scavo doloroso del male), chiamato prima a “interrogarsi” sul proprio sentimento (come fa ogni innamorato), e dopo a DOVER interrogare ancora se stesso, mentre interroga i testimoni, nello strazio della perdita. Ma quanto il corpo di Maria è stato ucciso e offeso, tanto le domande indecifrabili delle sue emozioni, i gusci fragili dei suoi sogni, sono vivi e, forse, solo ora possono “riposare” nella verità che lei stessa non sapeva, non poteva, pronunciare su di sé.
Dare, infine, nome al colpevole e, ancora di più, senso all’assenza di Maria, significa tendere al massimo una corda di consapevolezza tra sogno e provocazione, tra l’infantile e il sensuale; estrarre dal caos struggente della sua vita, attraverso gli scavi visionari e reali delle parole, quella radice “cosmica” che fa dire nel corso dello spettacolo che il caso non esiste

Estrarre dal caos quella catarsi, attraverso la chirurgia a cuore aperto del teatro, che scioglie in riscatto armonico le note dannate dell’esistenza, trasforma il temporale della tenerezza impossibile nella grazia densa del distacco.
E, anche se gli uomini fossero caso e caos, l’Arte teatrale rinnova la regia di senso di questa umanità per ricordare che, dal fango della violenza e della mediocrità, e oltre le care ombre dell’impossibile e dell’invisibile, è possibile uscire vivi con un frammento di verità, uno sguardo più consapevole, una nuova, più “solare”, domanda.

Portella della Ginestra

Portella della GinestraAnime
incarcerate
nella pietra

terra odorosa
e violata

Se s’allontana
fra le ginestre
il canto consueto
del vento

vi interrogo
muta

nel silenzio

della roccia.

 

 

La voce delle pietre

Anche l’anima rischia di diventare pietra fra le pietre insanguinate di Portella, ma è appena passata la voce del vento fra le ginestre e, forse, ora le anime possono parlare.
È necessario, però, il silenzio, per ascoltarle.

Aci Castello: cronaca di un desiderio (il ritorno)

C’era una volta, e per l’ennesima volta, un desiderio: i desideri sono come i fantasmi, infatti di solito dove ci sono gli uni, ci sono anche gli altri, e chi non esprime gli uni, non vede gli altri.
Una volta, ma forse anche più di una, nel Castello sul mare di un paesino senza nome, viveva un fantasma: si chiamava Amore, e oltre alla croce tipica di tutti i fantasmi, cioè quella di non essere visto (che però permetteva di fare divertentissimi scherzi), ne aveva un’altra: quella di vedere (che permetteva di fare scherzi solo a se stessi).
Egli vedeva in particolare come Tutto (e sopra, anzi sotto, Tutto le persone) in quel paesino fosse scolorito, ma, essendo un fantasma, non aveva in sé la forza per colorare le cose: vedeva in sé, infatti, la trasparenza della luce, ma non il colore… Si ricordò allora di aver sentito parlare due turisti venuti a visitare il castello a proposito di un bravissimo pittore che, oltre Tutto, vedeva i fantasmi! Proprio quello che aveva sempre desiderato! Nessun pittore, infatti, per quanto colorato, l’avrebbe potuto aiutare, se non l’avesse visto. E questo era il motivo per cui sino a quel momento era stato trattenuto dal lasciare il suo castello e compiere quel viaggio… Certo, questo ve lo sto dicendo io: il fantasma non avrebbe mai ammesso di restare nel castello per paura di non essere visto: non avrebbe mai ammesso la malinconia dei voli, che aveva imparato a chiamare “Libertà”, i capogiri nelle stanze, che aveva imparato a chiamare “sogni”, e sopra, anzi sotto, Tutto, non vi avrebbe mai mostrato quella stanza chiusa, senza nome… quella, per intenderci, dove non arrivavano le carezze… Ma tanto, dimenticavo, voi non vedete neanche le stanze aperte.Sala "Jean Calogero" - Castello di Aci Castello

Insomma, quella volta, ma forse pure quell’altra, il fantasma si decise a partire: cammina cammina, anzi vola vola, arrivò nella Villa dove viveva il Pittore… Cammina cammina, anzi vola vola, arrivò nella Vita dove villeggiava il Pittore… “E se non mi vedesse?”, pensava appena il fantasma, salutando i tanti compagni residenti che gli venivano incontro, e conquistato dal colore Tutto intorno, che completava la sua naturale trasparenza, facendola brillare ed esistere davvero. (Certo, anche lì capitavano cose senza luce e senza colore, ma erano loro a diventare sempre più invisibili fino a scomparire, non i fantasmi!).
Il fantasma era fuori di sé dalla gioia, al punto che quando, finalmente, arrivò il pittore e, guardandolo, gli chiese con estrema gentilezza: “Siete voi il fantasma venuto dal castello sul mare?”, rispose: “In carne e ossa!”. “Lo vedo, lo vedo!”, sorrise il pittore stringendogli la mano (o qualcosa del genere, non andiamo troppo per il sottile). Allora Amore spiegò al pittore di avere bisogno del suo aiuto per colorare il castello, il mare, il paesino e sopra, anzi sotto, Tutto, le persone: il fantasma avrebbe messo la trasparenza, il pittore il colore… e la trasparenza nel colore e il colore nella trasparenza avrebbero fatto la magia (o qualcosa del genere).
Il pittore voleva evitare di lasciare la sua villa e compiere quel viaggio… Nessun fantasma, infatti, per quanto trasparente, l’avrebbe potuto aiutare a togliersi le sue maschere, se le avesse viste. Certo, questo ve lo sto dicendo io: il pittore non avrebbe mai ammesso di restare nella villa per paura di essere visto: non avrebbe mai ammesso lo struggersi delle ombre, che aveva imparato a chiamare “Tempo”, le vertigini nei giardini, che aveva imparato a chiamare “giochi”, e sopra, anzi sotto, Tutto, non vi avrebbe mai mostrato quel giardino segreto, senza nome… quello, per intenderci, dove non arrivavano le carezze… Ma tanto, dimenticavo, voi non vedete neanche i giardini non-segreti.

Alla fine, quella volta, nonostante Tutto, il pittore si decise a partire: cammina cammina e vola vola, il fantasma e il pittore furono attratti lungo la via da un brillio azzurro nella terra, che spiccava sul grigio generale: “Com’è bello il tuo azzurro! Chi sei?”, chiese il pittore.
“Sono Aci, e il mio Azzurro viene dal Rosso: dopo essere stato ucciso da Polifemo accecato dalla gelosia, ho continuato a far scorrere il mio amore: ora il mio unico desiderio è raggiungere il mare per riabbracciare Galatea.”
“Allora unisciti a noi: stiamo andando verso il castello sul mare che già si comincia a intravedere: il tuo azzurro vivo ci farà da guida”…
Aci disse di sì con naturalezza: conosceva sia Amore sia Morte, sapeva bene chi dei due fosse il più forte, e quindi non aveva paura di nulla. (E questo ve lo dico sempre io perché a lui non piaceva vantarsi).

Cammina cammina, vola vola e scorri scorri, i tre arrivarono finalmente al castello sul mare: Aci inazzurrò il mare candido riabbracciando Galatea, il fantasma Amore (che ogni tanto a qualcuno capita di vedere) illimpidì il cielo, e il pittore consumò tutti i colori per le cose che si trovavano tra il mare e il cielo, castello compreso… per le persone la storia è un po’ più complicata, ma qualche pennellata arrivò anche a loro.
Dopo una giornata di intenso lavoro, quando il rosso cominciava a venire nell’azzurro, Amore disse ai suoi due Amici: “Vediamo chi arriva prima all’orizzonte”… e iniziò a volare; Aci lo seguì subito scorrendo più veloce che poteva, il Pittore si mise a inseguirli di slancio e di corsa… dimenticandosi di non sapere né volare né nuotare.

Non si è mai capito chi vinse quella gara innamorata e indiavolata, e per questo motivo, nel luogo colorato da Aci, da Amore e dal Pittore, che dal quel giorno venne chiamato Aci Castello, il mare e il cielo sembrano Tutt-ora fusi nell’Azzurro, ed è impossibile vedere l’orizzonte… che, del resto, è a sua volta un’illusione…

L’amore parla per enigmi

L'enigma senza fine
©Salvador Dalì, 1938

L’amore parla per enigmi
e il tempo degli amanti
passa incerto nel tentativo
di scioglierli. Ogni sguardo,
anche se mancato, è una sciarada,
un rebus, una sillaba posposta,
come da un dio geloso
di un disumano segreto;
ogni appuntamento
può essere un inganno,
un’assenza rivelare l’ignoto.
Anch’io cerco invano
di interpretarne i segni,
la loro apparente poligamia,
il loro a tutto legarsi
per confondere,
e resto annichilito
nel risolverli in un volto.

 

 

Assenza Essenza

In poesia il mistero dell’amore e quello della parola coincidono… in una ricerca e in un’eco continua di senso che diviene identikit di fallimentare dolcezza e danza di segni che attingono vita, inseguendo a vuoto una “totalità” da stralci d’apparenza: forse, nell’assenza di “soluzioni”, sta l’essenza dell’amore. (M.R.I.)

Lettera a Frida

Le due Frida
©Frida Kahlo, 1939

E c’è il tempo del dolore, cara Frida, che neppure io avevo atteso. Quando arriva ha un passo deciso e pesante, non bussa alla tua porta, la spalanca con violenza e irrompe con tutta la sua brutalità. E possiede un suo scandire, un suo procedere gommato. La sua data di nascita è morte per noi, per i nostri giorni, per quelle ore alle quali non avevamo dato il giusto peso. Il tempo del dolore squarcia la pelle, la fa a brandelli, è così forte da far tremare tutti i nostri maledettissimi organi vitali. Ti pone tra le mani il cuore e le sue arterie, ti trafigge i polmoni, ti amputa gli arti. E poi arrivano i chiodi, sì perché questo tempo sa munirsi di oggetti di tortura aberranti, che ti infilzano ovunque. I chiodi sono un corredo al dolore, non c’è immagine più vera che possa descrivere la miseria in cui si è costretti a vivere quando questo nuovo tempo spalanca le tue porte. E forse è anche angoscia come sentimento del possibile, è baratro, è vertigine. Un nuovo che attanaglia i meandri più reconditi della propria anima. Ma Frida, cos’è l’anima? Se non un “nulla” etereo… cosa ha a che fare col dolore nella sua assoluta fisicità? Perché la sofferenza scuote il silenzio delle nostre paure, mette a dura prova la nostra ratio e il logos di cui ci ha muniti un Dio buono? E tu sei nata due volte e la seconda sei venuta alla luce dal tempo del tuo dolore.
In te lo scandire angoscioso del possibile non ha mai fatto posto al rumoroso e banale tic tac delle lancette umane. Hai saputo trasformare la tua afflizione in bellezza. Hai appeso i tuoi vestiti tra due mondi lontani, indossando con sicurezza i colori delle tue origini, portando in giro il tuo corpo stretto dal tehuana. Hai abbracciato fiera i tuoi gessi, armature candide che hai rispettato e celebrato come una seconda pelle. Forse la sofferenza in itinere può essere lenita con l’amore, sentimento che hai destinato con enfasi irrazionale e unica al tuo “panzon” Diego Rivera. Tra vino, pennelli e farfalle sei stata una donna libera da tutto, meno che da te stessa. Hai perso i tuoi figli tra le tele insanguinate delle tue opere, urlando al mondo il tempo della tua angoscia. E poi quella smisurata “attrazione” per la falce e martello, scelta di vita, cesura insanabile contro la mostruosità del capitalismo imperante. Hai saputo raccontarti al mondo, in maniera irruenta ed impertinente hai voluto gli sguardi tutti per te, non per sano egocentrismo o vanità, ma per imporre coi tuoi colori una carica dirompente.
E il tempo del tuo dolore non si è ancora concluso e parla alle nostre sequenze di grigi, alle copertine opache con le quali apriamo le nostre giornate sperando di sopportarle. I tuoi fiori, le tue collane di spine, i tuoi teschi dialogano con le domande più profonde dell’uomo che sceglie di affacciarsi dalle finestre della propria teca cranica ricongiungendosi con le opere essoteriche di Aristotele. Siamo tutti Priamo. Ma esiste un movimento vorticoso che sa ricongiungersi con se stesso e con ogni stortura e trepidazione che l’animo umano produce. Il perché si impone in tutta la sua drammaticità e noi non vogliamo arrenderci all’ovvietà di quel motto tanto antico: “Chi ne nasce ne muore”… perché non è così che vorremmo andasse a finire. E c’è il tempo del dolore, cara Frida, a cui neppure la morte può dare consolazione.