Le due sorelle

Always A Work In Progress
©Duy Huynh, 2013

“Nonna”, chiese seria e preoccupata la bambina, “ora che sono finite tutte le fiabe, cosa mi racconterai prima di andare a letto?”
“Se guardi dentro di te”, rispose con la calma consueta la nonna, “troverai una porticina: bussa e qualcuno verrà ad aprirti”.
La bambina guardò dentro il suo cuoricino e, in effetti, vide una piccola porta, alla quale non aveva mai prestato attenzione. Con un certo timore bussò e la porta ebbe come un fremito leggero e gioioso; quindi si aprì e sulla soglia si affacciò una signora dallo sguardo bonario e familiare, vestita in modo molto sobrio.
“Chi sei?” chiese la bambina.
“Sono la Realtà”.
“E sai raccontare fiabe ?”
“Sì, ma non tutti le capiscono”.
“Perché?” s’incuriosì la bambina.
“Perché a molti sembrano così semplici e scontate da non meritare attenzione”.
Dette queste parole, si ritirò con un’espressione rassegnata.
Al suo posto comparve un’altra donna, dall’aspetto strano e allegro, abbigliata in modo molto estroso.
“Chi sei?” chiese di nuovo la bambina.
“Sono la Fantasia”, rispose la donna.
“E ne racconti fiabe?”
“Sì, tante, e piacciono molto, anche se nessuno le prende sul serio, perché a nessuno sembrano vere”. E, detto questo, anche lei si ritirò, chiudendosi la porticina alle spalle.
La bimba rimase davanti alla soglia un po’ confusa, interrogandosi sul significato delle parole pronunciate dalle due donne e chiedendosi, soprattutto, dove andare a trovare nuove fiabe.
Mentre se ne stava così pensierosa, un raggio di luce proveniente dalla porticina la illuminò e lei trovò la risposta: le fiabe nascono dalla realtà quotidiana, che non è mai tanto banale da non poter essere presa sul serio, ma hanno bisogno, per apparire sempre fresche e scintillanti, di essere colorate dalla fantasia, che non è mai tanto strana da non poter contenere la realtà. Di questa, insomma, lei è la sorella pazzerella, che, come un pittore sulla sua tela, ne combina… di tutti i colori.
“Così”, concluse felice la bambina, “le fiabe non finiranno mai e non sarà nemmeno difficile trovarle!”.

Il tempo “perduto”: Spadafora e il suo poeta (Appendice in versi)

Quando capita la bella avventura di fare un pezzo di strada con un poeta, poi, proprio come accade fra amici che stanno bene insieme, è difficile accomiatarsi e ci si lega al filo delle parole, a continuare un dialogo gratificante e fecondo.
Capita, inoltre, di imparare qualcosa dall’amico e, magari, di adottarne, seppure con molti limiti, il linguaggio, almeno quanto basta per esprimergli ammirazione e gratitudine.

Nostalgia del mare
©Maria Luisa Ferrari

Ô pueta Antuninu Giunta,
pi rrispunniri ô sò Salutu

Mali di pirdunarvi nun avemu,
chì sempri fustu prontu a benoprari,
tuttu lu nostru cori ci mintemu
pi putirivi sempri rricurdari.

Cummattistu pâ nostra libbirtati
e nni curastu puru a malatia,
rricanuscemu tutti a gran bbuntati
e grazzii pâ vostra puisia.

Stu salutu chi ultimu nni dastu
è cchiù di tutti cosa cummuventi,
picchì, comu Vui stissu cunfidastu,
nni lu dastu cû cori e cu la menti.[1]

 

Rringrazziamentu
(ô pueta Antuninu Giunta)

Dutturi[2], pi la vostra curtisia,
sintiti chiddu ca mmattiu a mia,
c’un jornu m’imbattia ’nta stu vulumi
e ci sintia nu ciàuru di numi;

nu ciàuru non novu a lu mé nasu:
dintra c’erunu i padri, non pi casu!
E all’impruvvisu mi truvai cu mmia,
’nta li chiesi e li strati, a genti mia.

Quantu mi parsi beddu stu Paisi,
li sò casi, cu’i lacrimi e i surrisi,
e Vui c’ancora nni passati accantu,
pi cu sapi scutari u vostru cantu!

Scusatimi s’a Vui m’arrivulgia,
ma no fici pi usari scurtisia:
chista chi pari tanta cunfidenza
è sulamenti gran rricanuscenza.[3]

 

 

[1] Al poeta Antonino Giunta, in risposta al suo Saluto
Non abbiamo nulla da perdonarvi,/ perché siete stato sempre pronto al bene,/ e noi ci mettiamo tutto il nostro affetto/ per ricordarvi sempre./ Avete combattuto per la nostra libertà,/ ci avete pure curato la malattia,/ tutti riconosciamo la vostra grande bontà/ e vi ringraziamo per la vostra poesia./ Questo ultimo saluto che ci avete dato/ è la cosa più commovente di tutte,/ perché, come Voi stesso avete confessato,/ ce lo avete dato con il cuore e con la mente.

[2] A Spadafora, il poeta Giunta è ancora per tutti “u Dutturi Giunta”, e a lui è stata intitolata una via, appunto via Dottor Giunta.

[3] Ringraziamento (al poeta Antonino Giunta)
Dottore, cortese come siete,/ ascoltate cosa è capitato a me,/ che un giorno mi sono imbattuta in questo libro/ e ci ho sentito odore di sacro;/ un odore non nuovo al mio naso:/ dentro c’erano i padri, non era un caso!/ E all’improvviso ho ritrovato con me,/ nelle chiese e per le strade, la mia gente./ Quanto mi è parso bello questo Paese,/ le sue case, con le lacrime e i sorrisi,/ e Voi che ancora passate accanto a noi,/ per chi è capace di ascoltare i vostri versi!/ Scusatemi se mi sono rivolta a Voi,/ non è stata mancanza di cortesia:/ questa che sembra un eccesso di confidenza/ è solo un’immensa riconoscenza.

Il tempo “perduto”: Spadafora e il suo poeta (Parte quarta)

Castello di SpadaforaUmana comprensione, invece, benché condita di maliziosa ironia, per lu Farotu (l’abitante di Faro), che, dopo una vita santa, fa un colpo di testa, che ora sconta con lacrime amare:

Doppu tant’anni di campari santu,
lu Farotu pirdiu lu sintimentu,
ed ora scunta cu duluri e chiantu
cincu minuti di divirtimentu.
Pirchì natura avvilinasti tantu
lu sfrinatu piaciri d’un mumentu,
chi a quann’a quannu niscennu Fra Santu
turnò cu l’anchi rutti a lu cunventu?
[1] (Lu Farotu)

Graziosamente ironico e malizioso anche il componimento dedicato a Jnuzza (Sunettu), a proposito del quale l’autore ci informa che si tratta di un fatto realmente accaduto (supra lu fattu veru, recita il sottotitolo).
L’incontro con la bella è tutt’altro che romantico: il giovanotto, infatti, urta contro il fascio di legna che la ragazza trasporta e si “sgargiau mascidda e coddu[2] (v. 5 ), non perdendo, però, il suo buon umore, anzi, con verve e malizia popolana, chiede alla fanciulla se non sarebbe stato meglio con un altro pennello fargli la barba (…cu nautru pinseddu,/ oh bedda…/ farmi la varva, non era cchiù beddu?, vv. 6-8). Ma la popolana, edizione ottocentesca e più risoluta della “Rosa fresca aulentissima” di Cielo d’Alcamo, sorda a sentimenti e fantasie, gli consiglia di togliersi dalla testa cose che il suo confessore considera peccati e chiude, senza lasciare spazio a repliche, sulla minaccia ancora più concreta rappresentata dalla madre:

Taliannumi sutt’occhi: Ih marchiatu!
Levatilla ssa brutta fantasia,
lu cunfissuri dici ch’è piccatu…

Si sapissi me Mà, m’ammazziria,
ch’ancora, senza d’essiri ‘ncignatu,
m’arrisicassi dar’oricchi a tia.[3] (Sunettu, vv. 9-14 )

Di grande intensità affettiva e particolare grazia poetica è il componimento dedicato a Beatrice, ultimogenita del poeta[4], dove c’è tutto lo stupore del padre di fronte al rinnovarsi del miracolo della vita e l’abilità del poeta che tale stupore ci restituisce in settenari intensi e leggeri allo stesso tempo:

Nascisti Biatrici,
fu amuri, sentimentu,
o angelicu purtentu,
dimmi, cu mai ti fici?
Ch’in tia beltà celesti
pigghiò l’umana vesti![5] (A Biatrici, vv.1-6)

E lo sguardo innamorato del padre non si stanca di seguire la crescita della sua creatura, cogliendone la bellezza nei suoi particolari più teneri: gli ucchiuzzi sfavillanti[6] (v. 8), i dintuzzi alabastrini[7] (v. 13), li trizzi ‘cannulati[8] (v. 23): insomma, senza dubbio, Beatrice è stata cosparsa fuori misura, da capo a piedi, dei favori delle Grazie e dell’ Amore e, per le sue trecce inanellate, ci si son messe pure le fate:

Li Grazii, l’Amuri
ti sparsiru cu junti,
di pedi sinu a frunti,
tutti li soi favuri;
li trizzi ‘cannulati
sunn’opra di li fati![9] (vv. 19-24)

Di intensa passione amorosa è intrisa l’ottava dedicata a Caterina, futura moglie del poeta[10], la più bella fra le belle, che gli ha acceso l’animo con il suo fresco viso di mela, i suoi occhi, la sua fronte, il suo sorriso: a lui resta solo la lucidità per capire di non potere vivere più lontano da questo suo terrestre, personale paradiso:

Bedda chi di li beddi si la scuma,
guardannu a tia mi sentu un focu accisu,
‘ntra ssa facciuzza di na vera puma
hai beddi l’occhi, la frunti, lu risu.
Catarina! pri tia stu cori adduma
chi stari non po’ chiù da tia divisu,
si avissi li toi fravuli e ddi puma
saria certu truvarmi in paradisu.[11] (A la bedda Catarina)

Un piccolo paradiso, probabilmente, è stata anche la sua Spadafora, che lo ha amato e che egli ha amato, tanto che è per gli Spadafurisi il suo estremo saluto in versi[12]:

A vui Spadafurisi amici cari,
chi mi stimastu e mi vulistu beni
ludannu di pregiarmi in benoprari,
di partirmi a la muta non cunveni,
cori e menti vi vogghiu salutari,
si a qualchi fallu rallintai li freni,
ni dici cu n’insigna a pirdunari,
chi lu mali si scorda e non lu beni. (Salutu, in puntu piriculusissimu di vita)[13]

Al poeta, che aveva costantemente goduto della stima e dell’affetto dei suoi concittadini, non sfuggiva certo l’importanza di questi doni, cui egli risponde, nell’accomiatarsi anche dalla vita, con grande e umile tenerezza, potenziata nel suo significato proprio dal momento in cui viene espressa.

Passione politica e passione amorosa, ironia e tenerezza, sarcasmo e naturale empatia, serietà e leggerezza, mente lucida e cuore appassionato ci restituiscono, dunque, in versi di varia misura e ritmo, nonostante il numero esiguo di componimenti esaminati, non solo una personalità di notevole interesse umano e artistico, ma anche uno spaccato di vita quotidiana nella Spadafora della seconda metà dell’Ottocento, che non esclude, come si è visto, l’incastro naturale con gli eventi della grande Storia. Questo sguardo, quasi attraverso una finestra sospesa sul tempo, nonostante gli inevitabili mutamenti di uomini e cose, ci consente di cogliere un legame, forse meno fragile di quanto non appaia da considerazioni frettolose e superficiali, fra la Spadafora di ieri e quella di oggi.

 

 

[1] Dopo tanti anni di vita santa,/ il Faroto ha perso la testa,/ ed ora paga con dolore e pianto/ cinque minuti di gioia./ O natura, perché hai avvelenato tanto/ il piacere sfrenato d’un momento/ che, per una sola volta che Fra Santo è uscito,/ è tornato al convento con le gambe rotte?

[2] Si è graffiato la mascella e il collo.

[3] Guardandomi di sottecchi: Ih scostumato!/ Toglitela questa brutta fantasia,/ il confessore dice ch’è peccato…/ Se lo sapesse mia Madre, mi ammazzerebbe,/ che, non essendo ancora usato,/ io osi prestare ascolto a te.

[4] Beatrice è l’ultima di venti figli. Questo elemento biografico è stato fornito dalla pronipote del poeta, Signora Beatrice Bellinghieri, alla quale va un sentito ringraziamento.

[5] Sei nata, Beatrice,/ è stato amore, sentimento,/ o miracolo di angeli,/ dimmi, chi mai ti ha fatto?/ Ché in te la bellezza celeste/ ha preso aspetto umano!

[6] Occhietti che sprigionano luce.

[7] Dentini bianchi come l’alabastro.

[8] Le trecce inanellate.

[9] Le Grazie, l’Amore/ ti hanno cosparsa abbondantemente,/ dai piedi alla fronte,/ di tutti i loro doni;/ le trecce inanellate/ sono lavoro delle fate!

[10] Anche per questo dato la fonte è la pronipote del poeta citata in precedenza (cfr. nota 4).

[11] Bella, fior fiore delle belle,/ guardandoti mi sento accendere come un fuoco,/ in questo visetto di mela/ hai belli gli occhi, la fronte, il sorriso./ Caterina! Per te arde questo cuore/ che non può più stare separato da te,/ se avessi le tue fragole e quelle mele/ sarei sicuro di trovarmi in paradiso.

[12] Il componimento è del 13 marzo 1890; la morte sarebbe sopraggiunta il 31 luglio dello stesso anno.

[13] A voi Spadaforesi amici cari,/ che mi avete stimato e voluto bene/ lodando che io mi onorassi di bene agire,/ non è opportuno andar via in silenzio,/ voglio salutarvi con il cuore e l’anima,/ se mi sono lasciato andare a qualche errore,/ chi ci insegna a perdonare ci dice/ che si deve dimenticare il male, non il bene. (Saluto, in un momento di gravissimo pericolo di vita)

Il tempo “perduto”: Spadafora e il suo poeta (Parte terza)

Spadafora - Corso Umberto IUn uomo energico e volitivo come Giunta (‘nnatu ‘ntra mari, curru, sautu, ammuttu[1] – Lu ritrattu propriu, Autoritratto, v. 4) non può non colpire l’accidia incarnata da Pitrazzu che, per non cucinare, sarebbe disposto a mangiare sempre fichi[2] e non desidera altro che mangiare, bere e coricarsi (manciu, bivu e mi curcu – Pitrazzu o l’accidia, v. 40); il pigro, però, finisce male:

cu non suda, non stenta e non travagghia,
mori, comu Pitrazzu, ‘ntra la pagghia.[3] (La morte di Pitrazzu, vv 7-8)

Opposto a Pitrazzu è Miciu Botta, che non si prende mai una sosta dalle sue frenetiche attività, e sembra di vederlo mentre

fa catinazzi, chiavi, chiova e tacci,
pisca a totani, a grunghi a vopi a sicci,
bannia murini, cefali ed alacci,
metti ‘nsalmura sardi, sauri, alicci.[4] (Miciu Botta, vv. 2-5)

Niente da prendere, invece da Mastru Brasi, che “si senti un Bonaparti[5] (v. 5),

ma tannu mastru Brasi ‘mpara l’arti
quann’arrisuscitannu scecchi morti.[6] (Mastru Brasi, vv. 7-8)

Ancora peggio l’imbecilli, che, non avendo idee proprie, vaga come cosa senza peso fra il “sì” e il “no” e il poeta lo colpisce nella sua insignificanza con versi fulminanti:

‘Na picca dici: sì, ‘na picca no,
ora sì, ora no, ora no e sì;
si dici sì, non si sapi s’è no,
si dici no, non si sapi s’è sì,
tantu a lu cozzu ci pisa lu no,
quantu a li corna ci pisa lu sì;
quannu fu ‘mpastizzatu stu sì e stu no
so matri dicia no, so patri sì.[7] (Ad un imbecilli)

Ilare e scanzonata, tale da suscitare puro divertimento, è la descrizione del “nasu di Paddazzu”:

Lu nasu di Paddazzu è straurdinariu,
ssimigghia un turriuni o prumuntoriu
…………………………………..
Di punta, pari turri di Surrizzu,
di longu pari capu di Milazzu,
di ciancu, la scugghera di lu Pizzu,
di frunti, di Caserta lu Palazzu.[8] (Lu nasu di Paddazzu, vv. 1-2; 9-12)

Un atteggiamento altrettanto divertito si nota nel sonetto Pri la morti di Lucchisi, morte che, insinua maliziosamente il poeta, coglie il protagonista, un venditore ambulante, a causa delle maledizioni dei compaesani assordati dalla sua voce petulante, aspra e molesta:

Tantu fu pitulanti, aspra e mulesta
la vuci, chi assurdò vaneddi e strati,
chi ogn’unu dissi :Oh ci vegna ‘na pesta
a Lucchisi,a lu sceccu e a li patati.
………………………………………
Ed ora in santa paci si po stari
di notti e jornu, di stati e d’invernu,
ca un si senti Lucchisi chiù abbanniari.[9]

Ancora più grave, perché avrebbe dovuto produrre suoni armoniosi, il danno causato dalla banna di Samperi, di fatto in tutto simile a quello provocato da un terremoto:

Ddu frastonu di musica infirnali
ca s’intisi ntrall’uri vespertini,
chi pr’un essiri affattu musicali
rumpia di la pacenza ogni cunfini,
fu a cunfruntu lu mancu d’ogni mali,
e giustu è chi a lu peggiu un c’è mai fini,
ch’unni passa la banna di Samperi
sdirrupa casi, cunventi e quarteri.[10] (La banna di Samperi)

 (continua)

[1] Nuoto in mare, corro, salto, sollevo.

[2] Jeu non disiu stuffatu e maccarruni,
ca su nimicu di lu cucinari,
vurria un tirritoriu di ficari
senz’umbra di patruni (Pitrazzu o l’accidia, vv.1-4 ).

Io non desidero stufato e maccheroni,/ perché sono nemico del cucinare,/ vorrei un terreno coltivato a fichi/ senza l’ombra di un padrone.

[3] Chi non suda, non soffre stenti e non fatica,/ muore come Pitrazzu nella paglia.

[4] Fa catenacci, chiavi, chiodi e bullette,/ pesca totani, gronghi, boghe, seppie,/ urla murene, cefali e lacce,/ mette in salamoia sarde sgombri, alici.

[5] Si ritiene un Buonaparte.

[6] Allora mastro Brasi imparerà il mestiere,/ quando risusciteranno asini morti.

[7] Un po’ dice sì, un poco no,/ ora sì, ora no, ora no e sì;/ se dice sì, non si sa se è no ,/ se dice no, non si sa se è sì,/ tanto sul collo gli pesa il no,/ quanto sulle corna gli pesa il sì;/ quando fu impastato questo sì e no/ sua madre diceva no, suo padre sì.

[8] Il naso di Paddazzu è straordinario,/ assomiglia a un torrione o promontorio…/ Di punta sembra la torre di San Rizzo,/ di lungo sembra il capo di Milazzo,/ di fianco la scogliera del Pizzo, di fronte, la Reggia di Caserta.

[9] Tanto fu petulante, aspra e molesta/ la voce che assordò vicoli e strade/ che ognuno disse: Possa venire un accidenti/ a Lucchisi, al suo asino e alle patate…/ E ora si può vivere in pace/ di notte e di giorno, d’estate e d’inverno,/ perché non si sente più urlare Lucchisi (vv.1-4; 9-11).

[10] Quel frastuono di musica infernale/ che si è udita all’ora del vespro,/ e, non essendo affatto melodiosa,/ rompeva tutti i confini della pazienza,/ è stata in confronto il minore dei mali,/ ed è proprio vero che al peggio non c’è fine:/ infatti, dove passa la banda di Samperi,/ fa crollare case, conventi e quartieri.

Notte d’estate a Villa Piccolo

Acquerello magico
Un “acquerello magico” di Casimiro Piccolo

Casimiro, i tuoi elfi
in braccio al plenilunio

leggeri

fissano incuriositi
il nostro torpore affaccendato.

Anche Stromboli
è respiro impalpabile
perduto all’orizzonte.

Ma i nostri passi
lasciano grevi
impronte di dolore

nel soffio dell’alba
che disperde il tuo mondo

 

 

La notte degli elfi, il giorno degli uomini

La notte è magica e abitata da creature benevole e leggere nella luce lunare, che ingloba e alleggerisce, come nella distanza sfumata di un acquerello, anche il paesaggio lontano.
Ma, alla luce del nuovo giorno, il miracolo s’infrange sulle orme umane impresse nel dolore della terra.