Il tempo “perduto”: Spadafora e il suo poeta (Parte seconda)

Epigrafe del Dott. Antonino GiuntaVivace e leggero, dunque, il poeta odia tutto ciò che, secondo lui, è serioso e ipocrita : così, ad esempio, attacca i preti:

Li parrini su niuri e su curvuni
cud’iddi ‘un bisugnaticci truzzari,
chi quann’anchi un v’arrivanu a bruciari,
vi tincinu e vi fannu mascaruni.[1] (Li parrini)

Lo stesso pessimismo traspare, a volte, nei confronti della politica e, nel componimento dedicato a Valerio Mezzanotte, il deputato che aveva scoperto il disavanzo di centocinquanta milioni, riprende Dante per affermare malinconicamente:

Ma sarà sempri Italia
burdellu di pruvincia. (A Valeriu Mezzanotti, vv. 50-51)

Egli ribadisce la propria onestà non solo nel verso già citato dell’Autoritratto, ma anche in un distico, Furtuna onesta, in cui afferma:

Si onestamenti non si fa furtuna,
non vogghiu in vita mia farni manc’una.[2]

Non così il suo Salvaturi Terranova, un imbroglione che sembra un birillo, scivola e tergiversa come un’ anguilla e burla il prossimo:

paratu supra un pedi pari un brigghiu 
comu n’anghidda sciddica e sfirria
……………………………………
sputa, vi ridi ‘facci e vi babbia.[3] (A Salvaturi Terranova, vv. 3-4; 6)

Un grande imbroglione, oltre che appassionato di pesca, è anche Padri Don Vincenzu, lu munsignaru (il bugiardo), sul cui sepolcro il poeta immagina che, un giorno, saranno scolpiti, oltre all’immancabile croce, anche nasse, fiocine e ami e, insieme, la menzogna, che non si dà pace, perchè ha perso l’amico più gradito:

Quannu chi Don Vincenzo scatta ’mpaci,
supra lu sò sepulcru, oltri la cruci,
nassi, friccini, ’nganni, anci e camaci,
si sculpirannu…
………………………………………
e la minsogna, chi un si duna paci,
pr’aviri persu l’amicu chiù duci.[4] (A Padri Don Vincenzu, vv. 1-4; 7-8)

Singolare intreccio fra arnesi usati per ingannare i pesci e reti tese a danno dei propri simili!

Il cappellano, invece, sopravvaluta le sue capacità oratorie, crede di avere una grande mente e di godere del favore della musa, e non si accorge di provocare nei presenti la febbre sporadica e di generare sbadigli, stiramenti del corpo, noia e sonno, anche perchè, non avendo più una radice di dente o molare,si ingarbuglia maledettamente:

Cridendusi di menti encicopletica,
cu li favuri di la musa arcatica,
quannu si vota ‘chiesa e fa la predica
ci veni a tutti la frevi spuradica;
facennu fflù fflù fflù tuttu s’impedica
chi chiù di moli e denti un’avi radica,
e ‘ntra sbadagghi e ‘tra stinnicchia a milia,
ogni lissa,siddii, sonnu cuncilia.[5] (Lu cappillanu, vv.1-8)

E poi c’è Ciccu, che ha meno senno dell’asino con il quale vive a stretto contatto e vale, quindi, meno della sua bestia:

Anni, n’avi chiù Ciccu ca lu sceccu,
ma giudiziu, lu sceccu chiù di Ciccu;
e ddi tri franchi chi vali lu sceccu
non vali mancu lu poviru Ciccu.[6] (Ciccu e l’asinu, vv. 5-8)

Il suo verso si vela, invece, di tristezza quando parla dei sogni infranti dei poveri diavoli, che, come Piddirinu, inutilmente piantano cavoli per sfuggire alla fame: ci saranno sempre “li ciuccazzi spinnacchiati e mauli[7] (v. 3) che, “comu tanti diavuli[8] (v. 5), ne divoreranno la fatica. Così, il povero Piddirinu ha maturato la sua amara filosofia:

a sparapauli
sempri lu celu manna affanni e triuli.[9] (Lu disignu di lu poveru, Il disegno del povero, vv. 7-8)

 (continua)

[1] I preti sono neri, sono carbone/ con loro non bisogna entrare in contatto,/ perché, anche se non arrivano a bruciarvi,/ vi anneriscono e vi rendono deformi come maschere.

[2] Se con l’onestà non si fa fortuna,/ in vita mia non voglio farne nemmeno una.

[3] Stando ritto su un piede sembra un birillo/ scivola e tergiversa come un’anguilla/…/ sputa, vi ride in faccia e si prende gioco di voi.

[4] Quando Don Vincenzo creperà/ sopra il suo sepolcro, oltre alla croce/ si scolpiranno…/ nasse, fiocine, inganni, ganci e ami/…/ e la menzogna, che non si dà pace/ per avere perduto l’amico più caro.

[5] Credendosi di mente enciclopedica,/ benvoluto dalla musa arcadica,/ quando in chiesa si gira e fa la predica/ viene a tutti la febbre sporadica;/ facendo flù flù flù s’ingarbuglia tutto/ perché non ha più una radice di molari e denti,/ e tra sbadigli e stiramenti a non finire,/ concilia ogni noia, tedio e sonno.

[6] Di anni, ne ha più Cicco dell’asino,/ ma di giudizio ne ha più l’asino;/ e quei tre franchi che vale l’asino/ nemmeno li vale il povero Cicco.

[7] Le brutte chiocce spennacchiate e stecchite.

[8] Come tanti diavoli.

[9] Ai poveri/ sempre il cielo manda affanni e triboli.

Il tempo “perduto”: Spadafora e il suo poeta (Parte prima)

copertina Poesie GiuntaSi possono attraversare le strade del proprio paese scrutando e vivendo il presente, immergendosi con naturalezza nel suo “respiro”, nel “profumo” insostituibile dell’oggi, che, pur venato di qualche eventuale nostalgia, ha, tuttavia, la forza persuasiva e vincente di tutto ciò che vive.
Questo modo, però, non cancella il bisogno di recuperare l’anima più profonda e remota dei luoghi ed essa è inscindibilmente legata a volti e storie del passato, verso cui, quindi, è inevitabile guardare, e non per curiosità cronachistica né per una tanto scontata quanto inutile celebrazione nostalgica, ma per vivere più pienamente e consapevolmente il proprio tempo e luogo.
Il tempo e lo spazio, infatti, sono il palcoscenico di tutte le vicende umane, ma su di essi alcuni protagonisti hanno la forza di imprimere il loro nome come un sigillo, così che, quando il loro tempo si è concluso e i luoghi in cui vissero diventano lo scenario per altri protagonisti, il loro nome contiene il “respiro” di intere generazioni, di eventi e atmosfere, valori e sentimenti che si incontrano all’incrocio fra la grande Storia e le piccole storie di ogni individuo.
Così, un grande momento della storia d’Italia, quello delle lotte d’indipendenza, s’intreccia con la storia di Spadafora, piccolo paese adagiato sulla costa tirrenica fra Messina e Milazzo, nella persona e nell’opera di un illustre suo figlio, Antonino Giunta (1821-1890), patriota che godette della stima di Garibaldi, oltre che medico e poeta.
È sulla produzione poetica che qui ci si vuole soffermare, in quanto essa, pur radicata in un preciso luogo e momento, ha, però, la capacità di parlare a chiunque sappia interrogare una pagina e ascoltarne la voce.
Nella vasta raccolta poetica di Antonino Giunta, Poesie Siciliane – Varia[1]suddivisa in due parti, ci sono i sentimenti, i sogni e le speranze di un popolo, ma anche le piccole miserie quotidiane dell’uomo qualunque.
La lingua usata è il dialetto siciliano (benché il poeta abbia scritto componimenti anche in italiano), strumento agile, vivo ed efficace particolarmente nella rappresentazione dello spirito popolare, che Giunta coglie con grande arguzia non disgiunta da umanissima simpatia. I suoi popolani, inoltre, sono sempre ben radicati nel loro ambiente paesano, accarezzato dal poeta con sguardo affettuoso e partecipe. Balzano così agli occhi, dalle sue pagine, luoghi e figure vive, che ci restituiscono un paese alquanto diverso dall’attuale.
Sono storie, comportamenti, usanze, modi di essere e di esprimersi che compongono un quadro palpitante e ci consentono di “camminare” per la Spadafora di circa centocinquanta anni fa!
La produzione poetica di Antonino Giunta è vasta e varia: si va da poesie dolcemente bucoliche, che riecheggiano movenze di Giovanni Meli, a poesie arditamente patriottiche, a descrizione di luoghi epici e familiari allo stesso tempo (A Milazzu[2]), ad espressioni di affetti familiari, a rifacimenti di componimenti classici, a componimenti satirici, dove, probabilmente, Giunta dà il meglio di sé. La satira, anche la più frizzante, è però alquanto bonaria e affettuosa: Antonino Giunta è sempre uomo fra gli uomini, non è un austero e distante castigatore di costumi e, anche se colpisce i difetti, riesce sempre divertente e piacevole. Del resto, nel suo Lu ritrattu propriu (Autoritratto), afferma di essere “non tantu seriu, di cuscenza nettu” (“non troppo serio, di coscienza integra”, v.10); egli ha principi incrollabili, come testimonia tutta la sua vita, ma si muove con quella leggerezza che lo mantiene giovane anche quando la giovinezza è passata: “Sù sissant’anni e mi sentu picciottu” (“Ho sessant’anni e mi sento un giovanotto”), come recita il primo verso dello stesso componimento.

(continua)

[1] Per il presente studio si fa riferimento al volume in fotocopia, A. Giunta, Poesie Siciliane ed Italiane, con prefazione e note di G. Chinigò, stampato presso la Tipo-Litografia Nicotra di Messina, in possesso della Pro Loco di Spadafora (Messina).

[2] Il componimento è un esempio poeticamente efficace di questa sintesi; in esso viene ricordata L’acqua di li Violi, una contrada dove avvenne uno scontro fra garibaldini ed esercito borbonico, nel luglio 1860; qui l’umile canto delle lavandaie di Milazzo è un inno d’amore all’Italia che sta per nascere:

 All’acqua di li Violi,
ci su li lavannari,
chi apprisiru ad amari,
e cantanu a l’Italia inni d’amuri, 
chi cancella geografici figuri! (vv. 60-65)

All’acqua delle Viole,/ ci sono le lavandaie,/ che hanno imparato ad amare,/ e cantano all’Italia canzoni d’amore,/ che modificano la carta geografica!

A Galileo

GalassiaA terra
le fragili ginocchia
nel giorno
dell’eclissi.

Ma il cielo
vicino all’audacia
degli occhi
non prostrati

nell’ora dei ciechi
ti spalanca

dorato

il riso delle galassie.

 

 

I piedi sulla terra e il cuore fra le stelle

Non le ginocchia piegate, ma gli occhi puntati come fari oltre l’angustia di luoghi e circostanze, sono preghiera che abilita a catturare il sacro respiro dell’universo.
Frate Sole… sora Luna e stelle, dentro di voi, dolce e silenzioso, un dio sorride a chi non si stanca di accarezzarvi dalla terra.

Palermo, 23 Maggio 2013. “Infiorata” di primavera

Foto Francesco Baiamonte 

A maggio, nelle strade e nelle piazze di Palermo fioriscono ragazzi dai sorrisi profumati di speranze. Il primo luogo a sbocciare è il porto: braccia che sventolano dalle “navi della legalità” come bandiere al vento impalpabile e delicato del futuro, nell’abbraccio festoso del cielo siciliano. Altre braccia rispondono dalla banchina, altri sorrisi arrivati da ogni parte d’Italia, legati dal filo d’oro dell’entusiasmo e dell’impegno contro ogni ostacolo alla realizzazione dei loro sogni: che siano loro gli Italiani finalmente “fatti”, che Massimo D’Azeglio auspicava nell’Italia ormai nata?
In effetti, si assomigliano tutti, come fratelli: sono teneri ma decisi, leggeri ma seri, gioiosi ma caparbi e determinati a raggiungere la loro meta.
Sono fra loro anche gli allievi del Liceo Scientifico “G. Galilei” di Spadafora (Messina), protagonisti entusiasti e consapevoli di un percorso di alto valore educativo, iniziato fra le pareti delle loro modeste aule, in mezzo alle difficoltà che ogni scuola pubblica conosce, ma sostenuti dalla passione e dalla fede degli invincibili anni della giovinezza. Hanno toccato con mano il lato oscuro del loro territorio, si sono imbattuti in storie difficili e drammatiche, di cui, benché tanto vicine, non sospettavano l’esistenza, ma dalle quali hanno saputo trarre monito e speranza.
Ora sbarcano, confusi in un mare di emozioni, invadono Palermo, come a riprendersi la terra che il destino ha da sempre assegnato a loro, come ad abbracciarla dopo aver rischiato di perderla per via dell’interminabile scempio che ne è stato fatto, come a ritrovarne il volto straordinariamente bello, nonostante le ferite e gli oltraggi lungamente patiti.
Non c’è dubbio: oggi questa primavera ha l’espressione dei loro volti, questo vento la musica della loro voce; e, forse, era maggio anche quando Abd ar-Rahmàn, poeta arabo di Sicilia, dieci secoli fa, ne ricordava, esule, la fertile bellezza:

… sopra i rami, i frutti
tremavano qual seni di ragazze belle
e come rami di salice ben snelle.[1]

 

 

 


[1] M. Freni, Il giardino di Hamdìs, Sellerio Editore, Palermo 1992, p. 14.

 

Per le vittime della mafia

Gli Ulivi secolari
©Letizia Lisi, 2013

Adagiateli
sotto la nenia
antica
degli ulivi
ché le nostre braccia
raggrinzite
non sanno cullare lamenti

e per l’urlo
sospeso
delle ferite
non trovano gli occhi
acque lustrali.

Adagiateli
dirimpetto alla luna.

 

 

Il lamento della terra e la carezza della luna

La terra tende le sue braccia e avvolge, in un notturno mesto e amoroso, corpi che nessun vivo, piagato nell’anima, ha la forza di sorreggere, come nessuna fonte può purificare l’oltraggio del dolore inflitto agli innocenti.
Solo il lamento fraterno degli ulivi e la luce serena della luna possono, come sacerdoti di un rito antico e pietoso, sfiorare i volti degli agnelli sacrificali e proteggerli nella quiete di una terribile immortalità.