Pomeriggio d’estate

Acquerello magico
Un “acquerello magico” di Casimiro Piccolo

Casimiro passeggiava fra i rami di glicine. Tutt’attorno c’era silenzio. Silenzio c’era. Molto dormivano. Forse dormivano tutti. Ma qualcuno era sveglio.

Come essere svegli mentre tutti gli altri dormono? Forse non dormono.

O forse è solo apparenza.

Eppure, quella notte non c’era buio per Casimiro e il suo passo era lieve. Lieve il suo vagare fra i glicini, mentre anche i cani sembravano scomparsi. E dire che quei cani erano così presenti.

Book (detto Buck) fa finta di essere cieco. Lui però ci vede benissimo. Sa tutto della Villa. Niente gli sfugge. La villa lo ha accolto e lui è sempre stato là, fin dai tempi antichi, quando ancora il signor barone passeggiava fra i viali di notte.

Per un po’ di tempo l’anima buona e giocosa di Lilly gli ha fatto compagnia, ma poi è andata perché doveva compiere un’altra missione. Poco lontano dalla villa, ma incompatibile.

E così Book (detto Buck) è rimasto solo. Solo a vegliare sul silenzio dei pini secolari. Ogni tanto passeggia e mi chiede come vanno le cose. Io non so rispondergli, perché non oso infrangere il patto di silenzio che c’è fra noi. Lui sa bene. Conosce le mie risposte e mi rispetta, perché non parlo la lingua universale e quindi non posso essere condannata.

Intuisco – almeno quello, sì – che tutti parlano, mentre il signor Barone non la smette di intingere il suo pennello nella tavolozza di colori. Lo so, lo so… li vedete sbiaditi. Alcuni di voi credono che il dipinto sia in bianco e nero. Altri lo vedono ingiallito. Io non so. Per me i colori sono inalterati. Il fatto è che gli esseri umani, chiamati impropriamente viventi, non si accorgono della loro varietà. Non hanno il gusto cromatico. Hanno perso sensibilità visiva. Sono un po’ come daltonici. Ma non come daltonici. Di fatto, non vedono niente. Non vedono più niente.

Il signor barone mi ha detto che quella sera c’è rimasto male. Qualcuno aveva organizzato la mostra di un pittore locale senza dirgli niente. Potevano almeno comunicarglielo. Sì lo so, poi ci sono rimasti male quando hanno trovato i quadri con i vetri tutti rotti per terra. Ma non è colpa mia. Il signor Barone me lo aveva detto che era questione di buona educazione. Avrebbero potuto informarlo di questa stupida mostra a casa sua.

Ah già, loro non parlano la lingua. Ma avrebbero almeno potuto chiamare un interprete. Ce ne sono di bravi in giro. Una volta c’era Lilly. Anima buona e giocosa la sua. Ma poi è andata perché doveva compiere un’altra missione. Poco lontano dalla villa, ma incompatibile. E così Book (detto Buck) è rimasto solo. Solo a vegliare sul silenzio dei pini secolari.

E Book (detto Buck) è proprio un bravo interprete. Avrebbe potuto dirglielo lui se solo glielo avessero comunicato. Ma anche a lui era stato tenuto nascosto. E non si lamenti quel pittore di provincia, perché grazie a noi ha avuto il suo momento di notorietà. Ringrazi semmai il signor Barone, che si è limitato a far cadere i quadri sul pavimento. Ringrazi e vada via, perché questa è la villa del signor Barone e dei suoi immortali e simpatici amici. Non manca proprio nessuno. Ora passeggiano. Ora ci guardano dagli alberi.

Stamattina sono stata al mare. Lo cercavo ma non c’era più.

Stamattina cercavo il mare. Ho incontrato una villetta, poi un’altra, poi un’altra ancora. E tutti erano felici e contenti.

Tutti beati. C’era la signora che raccontava all’amica della festa della sera prima e c’era il professore che si beava con gli amici ritrovati dell’estate, raccontando loro delle sue soddisfazioni accademiche. E c’era l’avvocato che non faceva che mandare messaggi dal suo cellulare, totalmente preso da questa interessante attività. E c’era un turista un po’ effeminato, tutto intento a cospargersi il corpo di olio solare. E c’era il suo amico che lo aiutava. E c’era il geometra che ha lo studio in via Vittorio Emanuele che ha preferito non andarci, perché aveva appuntamento con l’avvocato. E c’era l’amica dell’architetto, mentre l’architetto non c’era. STOP

Non c’era nessuno.

Non c’era la spiaggia.

Non c’era il mare.

Non gli alberi.

Non gli uccelli.

Non gli insetti.

Non i pesci.

Non c’erano i vivi.

E non c’erano i morti.

Non c’era nessuno.

C’erano tutti. Vivi e morti. Laddove i vivi erano già morti e i morti, quelli veri, vivevano senza che nessuno se ne accorgesse.

Sai, oggi ho parlato con Book (detto Buck). Ogni tanto passeggia e mi chiede come vanno le cose. Io non so rispondergli, perché non oso infrangere il patto di silenzio che c’è fra noi. Fa finta di essere cieco. Lui però ci vede benissimo. Ora Papilio lo sta accarezzando. Ora Papilio sta scherzando col signor Barone.

Papilio e Casimiro dice che se ne andarono. Ma chi lo dice?

Eccoci qua, sediamoci sul prato e che il picnic abbia inizio. Book, lo so che vuoi un pezzo di frittata. Questo pezzo è per te…

Grazie signor Barone per questo splendido picnic sull’erba.

Lo straniero, il teschio e il prigioniero

Castello di Aci Castello
©Erika Weinmann, 1985

Mi ero spinto in quel piccolo paesino così, un po’ per caso e un po’ per la voglia di far qualcosa di alternativo, in quella cupa ma afosa domenica di Aprile. Con la mia utilitaria dalla freccia mal funzionante, in preda ad un impulso di esaltante libertà e indipendenza, girai più volte tra i vicoli e le stradine rifiutandomi persino di rispettare i segnali stradali! Trasportato da tutto ciò, decisi di lasciare la macchina in un vicolo cieco, non curante della gente che seduta al bar di fronte mi fissava: – In fondo- mi dissi – potrei biascicare qualche parola in spagnolo e farmi passare per un turista inesperto!
Sceso dalla macchina, quello che vidi fu un immenso spettacolo storico-naturale: un enorme castello che si affacciava sullo splendido mare azzurro tipico della mia Sicilia, quella stessa Sicilia che in quell’ultimo periodo mi dava forti dispiaceri e che, invece, in quella insolita mattina, era riuscita a stupirmi a sorpresa ancora una volta.

Proprio mentre fissavo inebetito tutto questo, una voce alle mie spalle sussurrò dolcemente, ma non per questo non facendomi trasalire: – Questo castello si erge su una rupe esito di un eruzione sottomarina che risale a milioni di anni prima della formazione dell’Etna!
Fu così che feci la conoscenza del guardiano del castello, un uomo minuto dall’occhialino tondo e dall’animo del poeta, la qual cosa mi fu subito chiara non appena, facendomi strada tra gli scalini, come captando il mio stato interiore, mi disse: – Una mela non ha rimorsi![1] Vada per il castello, troverà le risposte che cerca!

Ringraziai e, pensando a chissà quanta gente era stata rifilata questa stessa frase per incrementare l’entusiasmo della visita, iniziai a girovagare nelle terrazze immense, stupito dalla vista celestiale che il posto mi offriva. Da una di queste riuscii persino a scorgere l’isoletta proprio lì davanti e mi chiesi se fosse ancora accessibile. Dopo aver fatto qualche foto, tornai indietro e, mentre mi avviavo all’uscita, mi resi conto che c’era un’ultima stanza da visitare. Scesi quindi qualche scalino e, passando sotto un piccolo porticato, mi ritrovai dentro a un’area che, diversamente dalle altre, ospitava delle teche di vetro che custodivano reperti archeologici probabilmente risalenti all’epoca primitiva. Tra questi vi erano anche alcuni teschi di primati, non ne avevo mai visti prima e la cosa mi affascinò parecchio: in fondo visitare quest’ultima stanza non era stata affatto una perdita di tempo. Fissavo interessato, quasi alitando sul vetro, quando improvvisamente un teschio, tra l’altro diverso dagli altri, iniziò a parlare raccontando una romantica e triste storia: la storia del prigioniero del castello, un uomo che in epoca lontana, era stato tenuto in catene nelle segrete alle quali si poteva accedere solo tramite la botola al piano superiore, la stessa botola che adesso il custode chiamava “pozzo dei desideri”.[2]

Il teschio raccontò che l’uomo era stato severamente punito per aver cacciato selvaggina appartenente al Signore del posto, il quale aveva deciso che, visto che gli era stato rubato un pezzetto di cielo, la pena sarebbe stata la medesima: l’uomo sarebbe stato imprigionato dentro una botola da dove il cielo era visibile solo per una piccolissima porzione, così da poter ricordare di cosa era stato privato e di chi fosse dunque il potere.
Ed infatti il prigioniero passava minuti, ore, giorni interi a pensare a tutto ciò che aveva e che aveva perso, alla sua terra, alla sua vita e in particolare pensava a Teresa, la splendida Teresa che gli aveva rubato il cuore e il cui battito di ciglia l’aveva fatto innamorare. Ed era proprio quest’immagine suadente che il battito di ali di quella beccaccia gli aveva evocato, e ancora questo il motivo che lo aveva spinto a catturarla, non dunque per ucciderla, ma semplicemente per tenerla con lui, per sentirsi vicino alla sua amata.
Così lui pensava e ripensava finché un giorno, dalla grata sopra la sua testa, cadde, probabilmente portato dal vento quasi per magia, un piccolo pezzetto di cenere nera, forse proveniente dal grande Etna ancora in eruzione.
Quella sì che fu per il povero sventurato una benedizione, perché poté usarlo per scrivere sulle pareti della cella, divenuta ormai sua triste dimora, una splendida poesia per l’amata, che la sera, al sorgere della luna, amava invocare ad alta voce, sperando che un flebile alito di vento potesse sussurrarla all’ orecchio di Teresa prima di prender sonno… chissà che in codesto modo fosse più facile incontrarsi nei sogni.
Ciò purtroppo non accadde, gli anni passarono lenti ed inesorabili finché il prigioniero si arrese al suo destino e si lasciò  morire. Questa storia era estremamente triste e io, non curante dell’assurdità di ciò che stava accadendo, preso dall’enfasi del racconto, lo dissi al teschio quasi insultandolo per aver incupito ancora di più la mia giornata! Lui, dal canto suo, non sembrò rimanere male per questa mia reazione, né tanto meno sembrò a sua volta essersi arrabbiato. Fece piuttosto un sorriso amaro e disse:

“O furisteru câ vinisti di luntanu,
picchì ha’ renniri ancora chiù pisanti lu me distinu amaru?
Non vidi chi d’ ’i me carni ristau sulu ‘na crozza vacanti?
Si ’u destinu ti purtau ccà supra un mutivu ci saravi!
Fammi ’nu favuri!
Ccussì câ me anima possa raggiungiri ’u Criaturi!
Va’ ‘ntâ ’dda isuledda e cunta i me versi sutta a l’àlbiru supra â cullina,
a ’dda cruci ‘ntâ terra cà vasa di tant’anni ’u me Cori!”
[3]

Disse questo e poi più nulla! Dopo qualche istante di silenzio, fu come se improvvisamente tornai in me e la prima reazione fu quella di stropicciarmi gli occhi e asciugarmi la fronte. Il caldo mi aveva giocato un brutto scherzo in quello strano castello, sicuramente mi ero lasciato suggestionare dalle parole del custode, quindi bevvi un sorso d’acqua e ridiscesi.

Seduto nella panchina della piazza, fissando la statua della madre, le parole che avevo immaginato di udire mi ritornavano alla mente come un disco rotto senza che riuscissi a liberarmene… in fondo, non avrei perso nulla nel recarmi su quell’isola, anche solo per esplorarla o per dimostrare a me stesso che sicuramente non avrei trovato nulla.
Mi feci dare un insolito passaggio da un vecchio pescatore attraccato al porticciolo, dicendogli banalmente che avevo da fare delle foto per un articolo e, una volta affondati i piedi sulla sabbia, iniziai il mio cammino sull’isola, forse anche un po’ contrariato dalla sensazione di inebriante curiosità, la stessa che mi aveva portato fin lì. Camminai per un lungo tratto finché mi resi conto di essere un po’ più in alto rispetto al livello del mare, mi guardai intorno e, a qualche metro da me, vi era un salice che muoveva le lunghe fronde a destra e a sinistra, come accarezzando qualcosa. Mi avvicinai piano piano e sotto la vidi: era proprio la croce di cui parlava il teschio, una croce di legno scuro affondata nella terra, priva di qualunque segno o scritta. Preso da un irresistibile impulso, come in forma di rispetto, mi inginocchiai lì accanto e, seguendo ancora una volta il mio istinto, ripetei la dolce poesia del prigioniero verso dopo verso e, proprio quando stavo per terminare, sentii di nuovo una voce, stavolta femminile ma forse più lontana, che mi disse: – Non importa quanto sarà lunga l’attesa, segui sempre il tuo cuore!

Ancora oggi, quando penso a quello che avvenne quel giorno, mi sento invadere da un senso di tiepido e avvolgente mistero: varie le domande che mi sono posto, i dubbi, le congetture… Ma adesso, seduto nella mia poltrona comoda e accogliente, mentre seguo la rotta delle rughe che solcano le mie mani, mi piace pensare che forse sono stato scelto come l’ultimo testimone di questa fantastica storia perché sarei stato in grado di farne tesoro, scelto dunque come ultimo uditore del prigioniero che ha affidato proprio a me la sua più intima preghiera: quella di consegnare a Teresa il suo dolce messaggio d’amore ispirato dal cielo sopra la città del castello.


[1] Verso del poeta-custode Davide Aricò.

[2] Questa storia trae libera ispirazione dal racconto che viene effettivamente narrato dal custode a chi si reca in visita al castello di Aci Castello.

[3] Ci si scusa per eventuali errori di trascrizione del dialetto, ma il nostro povero straniero ha riferito meglio che ha potuto quel che udì quel giorno lontano. Inoltre, per chi è ancora più straniero dello straniero, riportiamo le parole del teschio in italiano: “Oh straniero che sei venuto da lontano, perché vuoi rendere ancora più pesante il mio destino amaro? Non vedi che del mio corpo rimane solo un cranio vuoto? Se il destino ti ha portato quassù un motivo ci sarà! Fammi un favore, in modo che la mia anima possa raggiungere il Creatore! Va’ in quell’isoletta e declama i miei versi sotto l’albero in cima alla collina, a quella croce nella terra che bacia da tanti anni il mio Cuore!”

Aci Castello: cronaca di un desiderio

Turchineggiando
©Davide Saporita, 2013

C’era una volta un desiderio: tutti sanno che, quando si tratta di desideri, bisogna fare nel cuore acrobazie per “custodire”, da una parte, ed “esprimere”, dall’altra. Allo stesso modo, a tutti i bambini e a tutti i poeti è chiaro che il desiderio serve soprattutto a chi lo porta dentro: serve a disegnare e ri-disegnare il tempo, lo spazio, e a mettersi poi in qualche modo speciale all’interno di quel paesaggio… Ognuno ha dentro di sé, che lo sappia o meno, varie cartine geografiche disegnate dai suoi desideri: capire chi siamo è tutto un rintracciarne le coordinate…
Sul nostro tappeto di fiabe (di Rosy, Maria Grazia, Davide, Ylenia e Maria Rosa) non conta, ma canta, l’età, il sesso, la non-professione, i colori e le misure di ciascuno: ci diamo la libertà di mescolare tutte queste cose, per incrociare coordinate e incontrare persone attraverso personaggi, mai viceversa… La differenza la fanno proprio i desideri: piu’ sono ben custoditi e ben espressi, piu’ diventa facile incontrarsi e raccontarsi; piu’ i desideri sono nascosti, imbacuccati e incastrati dentro il cuore, piu’ è complicato, quasi impossibile.
Un giorno di primavera a cuor leggero portammo i nostri desideri ad Aci Castello: ognuno di noi aveva già, certo, i suoi paesaggi interiori segreti, ma per tutti, subito, fiorirono in quel luogo altri desideri vecchi e nuovi, schiacciati tra il cielo e il mare in un abbraccio, in una via senz’uscita che però era la piu’ vicina ai nostri “bersagli” (castello e biblioteca)… Non importava se l’insegna del bar vicino si faceva già gioco di noi, in un tacito Scacco matto: per chi allestisce di mestiere partite nabokoviane tra vita e letteratura, poteva addirittura suonare di buon auspicio!
Nel castello c’è un custode, nel custode c’è un pozzo, nel pozzo ci sono dei desideri; nel custode c’è un castello, nel castello c’è un pozzo, nel pozzo ci sono dei desideri. I nostri desideri, sempre piu’ schiacciati tra cielo e mare e tenuti appena appena a terra dalle pietre del castello e dalla voce del custode, facevano fatica a entrare nel pozzo: finché, all’ultimo lancio, la monetina si fermò proprio sulla soglia e per un soffio non cadde nel pozzo. Si potrebbe pensare che sia stato un caso, ma in quella monetina ci parve di scorgere, al contrario, una risoluta quanto capricciosa consapevolezza, in grado di tenere testa a tutte le consapevolezze e le soglie spirituali di chi l’aveva lanciata… Scacco matto. In quel preciso momento, ci fu chiaro che non tutti i desideri si sarebbero realizzati, ma, con l’aiuto provvidenziale del custode, capimmo che ciò era un bene: i desideri che non sono sulla nostra strada, non realizzandosi, lasciano tempo, spazio e forza agli altri desideri, per disegnarci nel nostro paesaggio naturale. Scacco matto ai desideri non realizzati.
Nella biblioteca ci sono due ragazze, nelle due ragazze ci sono dei libri, nei libri ci sono dei sogni; nelle due ragazze c’è una biblioteca, nella biblioteca ci sono dei libri, nei libri ci sono dei sogni. I nostri sogni erano evidenziati d’azzurro a metà pagina e aperti… Aperti a tutti i colori che ricevevano e donavano in quell’angolo dipinto di mondo… Tutti i nostri oggetti di scena e di vita (tappeto, gomitolo, valigia, mappamondo, marionette con Fata Turchina in testa e alla mano) erano pronti a quello scambio ventoso di colori, desideri e sogni, e a tutte le turchinerie possibili immaginabili che l’amore multiforme per la vita e la letteratura può suggerire… Scacco matto all’odio.
Nei nomi (che abbiamo cercato d’imparare) ci sono i ragazzi di Aci Castello, nei ragazzi di Aci Castello ci sono i “personaggi” e le “persone” del loro presente, nei personaggi e nelle persone del loro presente ci sono le loro emozioni. Nei ragazzi di Aci Castello ci sono dei nomi, nei nomi ci sono i loro personaggi e le loro persone, nei loro personaggi e nelle loro persone ci sono le loro emozioni. Le nostre emozioni dicevano e collegavano, col filo rosso delle fiabe, nuovi nomi sulle pietre antiche dei nostri personaggi e delle nostre persone… Raccontando di Aci e Galatea, abbiamo scoperto che un fine non-lieto può essere l’inizio di qualcosa di diverso sulla nostra strada, trasformare i nostri desideri e trasformarci; che ci sono molti modi d’amare e l’amore vero non finisce, ma si trasforma, quando è vero per davvero e i desideri non sono orologi e altalene, o vivono imbacuccati per non prendere il raffreddore. Scacco matto agli orologi, alle altalene, e pure al raffreddore! Se non mettiamo gli altri sulle nostre altalene, nei nostri orologi, e dentro i nostri raffreddori, può capitare che gli altri diventino in noi delle sorgenti e dei colori e, così, non muoiano mai. Scacco matto alla morte.
Ora che siamo tornati qui nel nostro castello di carte e sul nostro tappeto di fiabe (di Rosy, Maria Grazia, Davide, Ylenia e Maria Rosa), con i desideri dei ragazzi di Aci Castello in valigia e i nostri desideri trasformati, i bersagli spostati, sappiamo (e anche questa consapevolezza è una turchineria) che torneremo ad Aci Castello… e il nostro unico desiderio sarà ascoltare quella bimba che ci diceva: “Io ho una storia”… E quando ci sentiremo dire dalla vita “Scacco matto”, avremo il felice sospetto di essere piu’ vicini alla meta.

Un erbario di magia!

Uprooted Housing
©Duy Huynh, 2008

Molti erano i libri dell’enorme biblioteca comunale amministrata dal Sign. Fracassoli, ma uno di questi era diverso.
Era un libro con la copertina rivestita di foglie secche, composto da 1234 pagine che contenevano informazioni su tutte le tipologie di piante esistenti al mondo, ma non era questo che rendeva il libro particolare:era vivo! Non nel senso di occhi, bocca e linguaggio da dotto, era piuttosto portatore d’uno spirito sapiente che affascinava chiunque lo leggesse.
Non si conosceva il suo autore, molti di coloro che lo possederono per qualche tempo arrivarono quasi a credere che fosse stato redatto come una sorta di testamento dall’ultimo elfo rimasto sulla terra, e questo, non perché qualcuno li avesse informati di questo ma semplicemente perché era come se il libro avesse trasmesso loro tale segreto, quasi a livello inconscio.
Non si sa neppure come fece a resistere ai bombardamenti dei tedeschi in Polonia dove si trovava negli anni della guerra… Quel che è certo è che fosse sicuramente speciale!
Erano molte le stagioni passate da quando qualcuno lo aveva letto l’ultima volta… Nella Messina del XXIsec. , dove adesso si trovava, nessuno aveva ormai tempo per leggere: i tram attraversavano la città, le elezioni interessavano la popolazione che, stressata e nervosa, si scontrava salutandosi più che col sorriso con il grugno e, alla sera, esausta, gettandosi sul letto, finiva per colpire la lampadina con la pantofola pur di spegnerla in fretta.
Un giorno capitò che, vista l’inutilità apparente della biblioteca, si decise d’aprire al suo posto “TUTTO E SUBITO”, un grosso centro dove i cittadini messinesi avrebbero potuto, ancora più velocemente, pagare ATO, multe e quant’altro. Così i libri della biblioteca vennero smistati in due furgoncini: uno diretto al Museo Municipale con i libri più antichi, e un altro diretto all’inceneritore con i libri di nullo valore. Tra questi ultimi finì anche il libro in questione scambiato per un semplice erbario: se in città nessuno leggeva più, pensate che le piante avessero maggiore valore?
Ma, il potere direi magico del libro, operò misteriosamente anche questa volta.
Il camioncino viaggiava tranquillo per la strada rasente il porto quando, il conducente, rimase colpito alla vista di una cosa incredibile: un baobab in mezzo al mare!
Naturalmente era un miraggio ma il conducente finì comunque per perdere il controllo del veicolo
che si schiantò sul camioncino della frutta che lo precedeva. Gli sportelli posteriori del furgoncino si aprirono e i libri vennero catapultati fuori: sul selciato, in acqua, in mezzo alla frutta.
La cosa straordinaria però fu un’altra… Il nostro libro finì incredibilmente per arrivare sulla base della famosa Madonnina della lettera del porto di Messina. C’è chi dice che arrivò fin lì scivolando su una liana, chi che arrivò saltando sulle alghe emerse a ‘mo di sentiero dall’acqua salata: restano comunque voci di passanti e testimoni senza nome.
Non fu questa, difatti, la cosa sconvolgente, bensì gli esiti di tutto questo.
Da quel momento inspiegabilmente i cittadini di Messina presero a respirare a pieni polmoni, stanchi di guidare, riscoprirono il piacere di mettere un passo dopo l’altro, “TUTTO E SUBITO” non fu mai aperto perché ormai nessuno aveva fretta e, pur continuando a lavorare, la gente finalmente sorrideva e la sera, si andava letto solo dopo aver letto almeno due pagine di un buon libro:il cuoco uno d’economia; il contabile uno su come diventare esperti di vini; la casalinga un intrigante giallo. Solo a quel punto si spegneva la luce con un tocco leggero, e ci si appisolava tra i comodi cuscini…
Schhh… Buonanotte!

La stella e la neve

A Midsummer Night's Dream
©Arthur Rackham, 1908

In una sera d’inverno, la neve si lamentava della sua solitudine: non un bimbo, non un fiore, non un musetto di animale. E nemmeno un alito di vento.
Dallo sconforto, cominciò a sciogliersi in pianto e diventò, così, un laghetto fresco e grazioso.
All’improvviso, nel piccolo specchio d’acqua, si affacciò curiosa una stella e si mise allegramente a giocare.
La neve cessò di piangere e, ridivenuta compatta, tenne per sempre la stella stretta fra le sue braccia e non rimase mai più sola.
Soltanto nelle notti di primavera, quando la neve corre verso il mare, la stellina torna a casa sua, in cielo, arrampicandosi sui rami di un vecchio albero amico.

Una freddissima sera di Febbraio