Vegliava il grande marittimo
di tanti rami d’ombra la vedetta
il cimitero cani–gatti
gli spiriti elementali la stretta
Qualcuno, altro suono, contava
di loro le note e del padrone
di quanti umido naso annusano vita
ancora, nell’ancora
Tu quel pino ascoltando e la voce
la mano di ruga corteccia leggera
la brezza il mistero la morte l’amore
del fremere il giocatore
La luna di scuro lenire
dal buio nel cono stellare
le notti (e il barone sorride)
magiche imperiture
Cerchi e cieli magici
Nei cerchi concentrici del verso si annida la vita: si “domina” e sparge l’eco del tempo; si rinnovano presenze contese a cieli vuoti, strappate dal delicato accordo di una parola: per sorridere ancora magiche su luminosi silenzi. (M.R.I.)
* Le notti di Casimiro è il titolo dello spettacolo teatrale, scritto da A. Samonà e rappresentato nell’estate del 2012 a Villa Piccolo, dal quale la lirica trae ispirazione.
Casimiro passeggiava fra i rami di glicine. Tutt’attorno c’era silenzio. Silenzio c’era. Molto dormivano. Forse dormivano tutti. Ma qualcuno era sveglio.
Come essere svegli mentre tutti gli altri dormono? Forse non dormono.
O forse è solo apparenza.
Eppure, quella notte non c’era buio per Casimiro e il suo passo era lieve. Lieve il suo vagare fra i glicini, mentre anche i cani sembravano scomparsi. E dire che quei cani erano così presenti.
Book (detto Buck) fa finta di essere cieco. Lui però ci vede benissimo. Sa tutto della Villa. Niente gli sfugge. La villa lo ha accolto e lui è sempre stato là, fin dai tempi antichi, quando ancora il signor barone passeggiava fra i viali di notte.
Per un po’ di tempo l’anima buona e giocosa di Lilly gli ha fatto compagnia, ma poi è andata perché doveva compiere un’altra missione. Poco lontano dalla villa, ma incompatibile.
E così Book (detto Buck) è rimasto solo. Solo a vegliare sul silenzio dei pini secolari. Ogni tanto passeggia e mi chiede come vanno le cose. Io non so rispondergli, perché non oso infrangere il patto di silenzio che c’è fra noi. Lui sa bene. Conosce le mie risposte e mi rispetta, perché non parlo la lingua universale e quindi non posso essere condannata.
Intuisco – almeno quello, sì – che tutti parlano, mentre il signor Barone non la smette di intingere il suo pennello nella tavolozza di colori. Lo so, lo so… li vedete sbiaditi. Alcuni di voi credono che il dipinto sia in bianco e nero. Altri lo vedono ingiallito. Io non so. Per me i colori sono inalterati. Il fatto è che gli esseri umani, chiamati impropriamente viventi, non si accorgono della loro varietà. Non hanno il gusto cromatico. Hanno perso sensibilità visiva. Sono un po’ come daltonici. Ma non come daltonici. Di fatto, non vedono niente. Non vedono più niente.
Il signor barone mi ha detto che quella sera c’è rimasto male. Qualcuno aveva organizzato la mostra di un pittore locale senza dirgli niente. Potevano almeno comunicarglielo. Sì lo so, poi ci sono rimasti male quando hanno trovato i quadri con i vetri tutti rotti per terra. Ma non è colpa mia. Il signor Barone me lo aveva detto che era questione di buona educazione. Avrebbero potuto informarlo di questa stupida mostra a casa sua.
Ah già, loro non parlano la lingua. Ma avrebbero almeno potuto chiamare un interprete. Ce ne sono di bravi in giro. Una volta c’era Lilly. Anima buona e giocosa la sua. Ma poi è andata perché doveva compiere un’altra missione. Poco lontano dalla villa, ma incompatibile. E così Book (detto Buck) è rimasto solo. Solo a vegliare sul silenzio dei pini secolari.
E Book (detto Buck) è proprio un bravo interprete. Avrebbe potuto dirglielo lui se solo glielo avessero comunicato. Ma anche a lui era stato tenuto nascosto. E non si lamenti quel pittore di provincia, perché grazie a noi ha avuto il suo momento di notorietà. Ringrazi semmai il signor Barone, che si è limitato a far cadere i quadri sul pavimento. Ringrazi e vada via, perché questa è la villa del signor Barone e dei suoi immortali e simpatici amici. Non manca proprio nessuno. Ora passeggiano. Ora ci guardano dagli alberi.
Stamattina sono stata al mare. Lo cercavo ma non c’era più.
Stamattina cercavo il mare. Ho incontrato una villetta, poi un’altra, poi un’altra ancora. E tutti erano felici e contenti.
Tutti beati. C’era la signora che raccontava all’amica della festa della sera prima e c’era il professore che si beava con gli amici ritrovati dell’estate, raccontando loro delle sue soddisfazioni accademiche. E c’era l’avvocato che non faceva che mandare messaggi dal suo cellulare, totalmente preso da questa interessante attività. E c’era un turista un po’ effeminato, tutto intento a cospargersi il corpo di olio solare. E c’era il suo amico che lo aiutava. E c’era il geometra che ha lo studio in via Vittorio Emanuele che ha preferito non andarci, perché aveva appuntamento con l’avvocato. E c’era l’amica dell’architetto, mentre l’architetto non c’era. STOP
Non c’era nessuno.
Non c’era la spiaggia.
Non c’era il mare.
Non gli alberi.
Non gli uccelli.
Non gli insetti.
Non i pesci.
Non c’erano i vivi.
E non c’erano i morti.
Non c’era nessuno.
C’erano tutti. Vivi e morti. Laddove i vivi erano già morti e i morti, quelli veri, vivevano senza che nessuno se ne accorgesse.
Sai, oggi ho parlato con Book (detto Buck). Ogni tanto passeggia e mi chiede come vanno le cose. Io non so rispondergli, perché non oso infrangere il patto di silenzio che c’è fra noi. Fa finta di essere cieco. Lui però ci vede benissimo. Ora Papilio lo sta accarezzando. Ora Papilio sta scherzando col signor Barone.
Papilio e Casimiro dice che se ne andarono. Ma chi lo dice?
Eccoci qua, sediamoci sul prato e che il picnic abbia inizio. Book, lo so che vuoi un pezzo di frittata. Questo pezzo è per te…
Grazie signor Barone per questo splendido picnic sull’erba.
Abbandono il tuo seno
per amarti
al di là del dolore
immortalato dalla tua fatica
ti dono il mio stato
di grazia
poggiato sul tuo petto
fino a ieri non conoscevo
il tuo viso
ora che lo guardo
così da vicino
è come se lo esplorassi
dall’ignoto ormai
sono anni i pochi secondi
della mia tenera vita
ti riconosco
madre
per sempre.
* * *
Quando sono nato io
il 25 ottobre del 1955
il Papa era Pio XII
al secolo Eugenio Pacelli
il Presidente della Repubblica
era Giovanni Gronchi
il Presidente del Consiglio
dei Ministri era
Antonio Segni
il Presidente degli
Stati Uniti d’America
era Dwight D. Eisenhower
generale vittorioso della
seconda guerra mondiale
queste cose le ho lette
da grande perché
in quel momento
non conoscevo altro
che il dolore
e la felicità
e la stanchezza
e il sudore
e l’odore
e il calore
e l’amore
di mia madre.
Distanze d’amore
Queste due tessere liriche del mosaico La Via Lattea custodiscono un itinerario umanissimo: ne rendono tutto il senso scavato tra lo stridore prosaico della Grande Storia e la prima oasi di tenerezza ed esperienza del seno materno; tra la fragile intelaiatura della coscienza e l’affiorare d’un amore maturo che sa stabilire e attraversare, con vertiginosa grazia di versi, le distanze. (M.R.I.)
A maggio, nelle strade e nelle piazze di Palermo fioriscono ragazzi dai sorrisi profumati di speranze. Il primo luogo a sbocciare è il porto: braccia che sventolano dalle “navi della legalità” come bandiere al vento impalpabile e delicato del futuro, nell’abbraccio festoso del cielo siciliano. Altre braccia rispondono dalla banchina, altri sorrisi arrivati da ogni parte d’Italia, legati dal filo d’oro dell’entusiasmo e dell’impegno contro ogni ostacolo alla realizzazione dei loro sogni: che siano loro gli Italiani finalmente “fatti”, che Massimo D’Azeglio auspicava nell’Italia ormai nata?
In effetti, si assomigliano tutti, come fratelli: sono teneri ma decisi, leggeri ma seri, gioiosi ma caparbi e determinati a raggiungere la loro meta.
Sono fra loro anche gli allievi del Liceo Scientifico “G. Galilei” di Spadafora (Messina), protagonisti entusiasti e consapevoli di un percorso di alto valore educativo, iniziato fra le pareti delle loro modeste aule, in mezzo alle difficoltà che ogni scuola pubblica conosce, ma sostenuti dalla passione e dalla fede degli invincibili anni della giovinezza. Hanno toccato con mano il lato oscuro del loro territorio, si sono imbattuti in storie difficili e drammatiche, di cui, benché tanto vicine, non sospettavano l’esistenza, ma dalle quali hanno saputo trarre monito e speranza.
Ora sbarcano, confusi in un mare di emozioni, invadono Palermo, come a riprendersi la terra che il destino ha da sempre assegnato a loro, come ad abbracciarla dopo aver rischiato di perderla per via dell’interminabile scempio che ne è stato fatto, come a ritrovarne il volto straordinariamente bello, nonostante le ferite e gli oltraggi lungamente patiti.
Non c’è dubbio: oggi questa primavera ha l’espressione dei loro volti, questo vento la musica della loro voce; e, forse, era maggio anche quando Abd ar-Rahmàn, poeta arabo di Sicilia, dieci secoli fa, ne ricordava, esule, la fertile bellezza:
… sopra i rami, i frutti tremavano qual seni di ragazze belle e come rami di salice ben snelle.[1]
[1] M. Freni, Il giardino di Hamdìs, Sellerio Editore, Palermo 1992, p. 14.
Adagiateli
sotto la nenia
antica
degli ulivi
ché le nostre braccia
raggrinzite
non sanno cullare lamenti
e per l’urlo
sospeso
delle ferite
non trovano gli occhi
acque lustrali.
Adagiateli
dirimpetto alla luna.
Il lamento della terra e la carezza della luna
La terra tende le sue braccia e avvolge, in un notturno mesto e amoroso, corpi che nessun vivo, piagato nell’anima, ha la forza di sorreggere, come nessuna fonte può purificare l’oltraggio del dolore inflitto agli innocenti.
Solo il lamento fraterno degli ulivi e la luce serena della luna possono, come sacerdoti di un rito antico e pietoso, sfiorare i volti degli agnelli sacrificali e proteggerli nella quiete di una terribile immortalità.