Il femminicidio, le mode e gli eroi… tra “realtà” e rappresentazione mediatica

Ragazza allo specchio
©Pablo Picasso, 1932

Si ritiene vero solo quello che attraversa uno schermo televisivo, ciò che viene messo in circolo nella moda. Per moda non intendo assolutamente qualcosa di ristretto e di relegato al vestiario, ma, al contrario, qualcosa che clona la maniera di esistere di ciascuno attraverso un evento mediatico che si trasforma in uno stile di vita per un certo tempo.
Il femminicidio è una realtà oppure un evento mediatico? Il femminicidio è l’uno e l’altro. Allora perché non se ne parlava prima, anzi si taceva come si tace adesso per certe cose altrettanto importanti, ma di cui non se ne sa nulla?
Perché non importa a nessuno delle tragedie umane, ma solo delle mode: il femminicidio mediatico è qualcosa di diverso, si tratta di un oggetto di consumo che si scambia, ovunque, e si propaga come un fantasma imposto dal potere dei mezzi di pseudoinformazione di massa. Il femminicidio nella realtà è un dramma della donna che continua ad esserci, ma separato da questa informazione modale che sa solo di consumo. Si tratta di due realtà parallele, l’una sganciata dall’altra.
Se proponevo il femminicidio anni fa nessuno avrebbe preso in considerazione l’oggetto, oggi tutti vogliono parlare di questo argomento, perché il pensiero sociale è clonato. Se vuoi parlare di un fenomeno sociale che è molto gravoso ma non contemplato dai mezzi di pseudoinformazione di massa, nessuno lo prende in considerazione.
C’è una differenza sostanziale tra il silenzio e la negazione; il primo caso è sinonimo di disconferma del messaggio, di totale indifferenza, nel secondo si tratta della sua negazione. Negare vuol dire sempre considerare, anche se l’enunciato preso di mira viene considerato falso. Il primo caso è il peggiore di tutti, giacché non si considera per nulla.
Oggi siamo in una dittatura, perché la libertà, la libera espressione è messa sotto i piedi, la cultura, la conoscenza viene piegata alla volontà del mercato. La tomba di un grande compositore – Riccardo Casalaina – si sta spaccando nel cimitero di Milazzo (Messina) in quanto due arbusti crescendo con le radici ci stanno bene pensando, nessuno, proprio nessuno fa nulla. Non è un evento mediatico, quindi non esiste.
Ho realizzato un video che segnala questa urgenza, ma tutto continua a tacere.
Per questo motivo sono molto scettico e considero disastroso questo periodo storico, capisco che non cavalco nessun abbigliamento culturale, come fanno tanti furbetti che, utilizzando le mode sociali, proclamano eventi che alla fine si ricircolano nelle mode.

Il silenzio della donna

Bambina alla porta
©Angelo Monico, 1944-1945

Il silenzio della donna
è la sua chiave,
ciò che solo, in essa, va osservato
ed auscultato, come medici
allo stetoscopio, per scoprirne
il linguaggio di segreti.
È un cono d’ombra
in cui l’uomo viene sorpreso
invariabilmente, ineludibile,
ma non temuto,
come un’eclisse
che gli astronomi attendono
per studiare il sole
dalla sua assenza.

 

 

Studio infinito

Questi versi ci riconciliano con il significato originario dello studium latino… in una tensione di luce lirica che accosta e ricrea spazi di silenzi e segreti, a rendere nel chiaroscuro d’un canto il battito “cosmico” del cuore umano. (M.R.I.)

Lettera ad Hannah

Cara Hannah,
Hannah Arendt
manchi da troppo, tanto tempo. Io mi perdo ogni giorno e da anni tra i meandri del tuo pensiero, consapevole che solo una mente femminile poteva partorire, portare alla luce tanta acuta bellezza. Il tuo pensiero è un monumento contro l’ipocrisia di ogni tempo e tuona ancora come una sfida che bisognerebbe cogliere con tutta la sua portata rivoluzionaria. Riconciliarci col mondo e con l’incomprensibile è un esercizio difficile e duro, da palestra mentale che toglie il sonno e cela una mai superata malinconia dell’essere. Ma ai filosofi più che ai poeti è cara la malinconia! E tu lo sai bene, è un sentimento che si addice molto a chi sceglie di osservare con lenti diverse ciò che appare e porta in nuce la diversità, la differenza.
Quanto sarà stato difficile per te, ebrea e libera pensatrice, ammettere la banalità del male? Andare incontro alle accuse più feroci degli uomini del tuo tempo? Sei stata accusata di odiare te stessa e il tuo popolo sol perché hai ammesso una verità scomoda, non una fallace opinione. In questo sta l’essenza della tua filosofia. Hai riportato alla luce l’antica e parmenidea dicotomia tra verità e doxa. Ma in che modo il tuo pensiero poteva inserirsi tra le maglie strette di un popolo ferito che voleva solo vendetta? Hai provato a farti ascoltare cercando di spiegare le origini del totalitarismo, come evento che tutto scardina, perfino le vecchie categorie. Non lo si può comprendere, hai detto, fino a quando non sarà stato, quindi nel suo effettivo superamento. Comprendere il totalitarismo significava comprendere l’essenza di “quel secolo”. C’è una terribile originalità nel totalitarismo che non richiama in alcun modo altri esempi, porti sicuri per il nostro intelletto che non riesce ad andare oltre, legandosi a categorie politiche e storiche passate. L’evento ci priva dei soliti, consueti strumenti di comprensione e si inizia a vacillare.
Ma, cara amica, tu mi hai insegnato una cosa molto importante: “Se vogliamo sentirci a casa in questo mondo, anche al prezzo di sentirci a casa in questo secolo, dobbiamo cercare di partecipare al dialogo interminabile con l’essenza del totalitarismo”[1]. E tutto questo travaglio della mente ben si coniuga col tuo concetto di politica come spazio necessario, individuale e collettivo, per essere. Libertà e politica sono la medesima cosa, allora, cara Hannah, noi stiamo perdendo per sempre la nostra possibilità di essere e di essere liberi. È spaventoso quanto l’avvento del totalitarismo. Il nostro agire ha smarrito la sua facoltà di iniziare e di replicarsi. Siamo e non siamo perché ci hanno sottratto il nostro spazio pubblico dove apparire e far dialogare le nostre diversità. Se per i greci la vita privata era considerata “idiota”, allora è questo quello che siamo diventati, incapaci di apportare nel mondo, che pur esperiamo, la nostra irripetibile unicità. Spaventoso e orrendo, al pari dell’olocausto anche noi siamo delle non persone, annichilite e pronte a non lottare per tenere in vita la nostra ragione.
Le democrazie che tu hai conosciuto e quelle che stiamo vivendo hanno eclissato ogni possibilità di partecipazione “activa” alla vita pubblica. Il potere si auto-inganna e cade vittima di se stesso e tu sei riuscita a portare sul banco degli imputati perfino gli Stati Uniti e la guerra in Vietnam, con una lucidità che fa male e fa riflettere ancora oggi.
La creazione di un’immagine capace di sostituire la realtà è il gioco più perverso del nostro tempo, ne siamo tutti vittime e carnefici allo stesso tempo. La politica utilizza la sua techne per fabbricare sostituti della realtà, dove inizia e finisce la nostra libertà? Ma la tecnica rischia di ridurre gli uomini ad una massa informe, inetti all’azione, rischia, “proprio quando lo straordinario apparato tecnologico moderno sembra rendere l’uomo signore incontrastato dell’universo, di annichilire l’uomo distruggendo la sua statura”[2].
E concludo la mia lettera, sperando che arrivi fin lassù, sull’Olimpo dei pensatori, chiedendoti come si fa a sopravvivere ad un amore tanto grande, un “non finito” nella routine quotidiana? Non sei mai caduta in trappole, tranne in quelle create apposta per te dal tuo grande maestro e amante Martin Heidegger. La volpe, come ti piaceva chiamarlo, l’uomo che amava la tua intelligenza, ma che preferiva nasconderti al mondo. Vi siete amati infinitamente con la passione e la phronesis dei grandi. Andavi a trovarlo di nascosto e come tutte le grandi donne sapevi subordinare ciò che vi univa al suo pensiero e al tuo. Poteva e doveva non pensarti per dedicarsi ai suoi esercizi intellettuali, pur essendo la sua costante musa. Eppure la tua libertà ti ha portato al suo necessario superamento…in ciò forse sta l’essenza del vostro amore. Il pensatore vicino al nazismo e la pensatrice ebraica, sua allieva, costretta ad andare via per non essere vittima dell’odio dell’uomo verso l’uomo. Avete atteso 25 lunghi anni per rivedervi…solo la filosofia poteva rendere dolce questa attesa, che non compensa, che non paga le umiliazioni subite. Brillano le città in Oriente e non è detto che l’amore possa essere più forte della voglia di vivere di filosofia, vera ed autentica compagna che non tradisce, ma protegge dalle mediocrità di ieri e di oggi.

[1] H. Arendt, Verità e politica, Bollati Boringhieri, Torino 1995.

[2] Ivi.

Il lupo fuori dalla… fabula

Un lupo
©Peter Rindisbacher

Il lupo, che non ne poteva più di stare in fabula, decise di prendere una boccata d’aria nuova e, atteggiamento noncurante, ma occhio vigile e orecchie ben drizzate, si avviò verso la città, dove si diceva che abitassero quegli uomini che da sempre sparlavano di lui.
Così, si ritrovò presto in mezzo ad un viavai di gente e di strani scatoloni metallici che si muovevano in tutte le direzioni freneticamente e senza un ordine comprensibile, producendo rumori indiavolati e sporcando pure l’aria, tanto che a lui cominciava a mancare il respiro; solo il rosso dei semafori li fermava per un brevissimo tempo, ma gli occhi del lupo non distinguevano i colori, quindi, la sua confusione era totale.
Questo disorientamento fu notato da un corvo, che aveva preso dimora tra le fronde di un grande faggio, presso un vecchio palazzo, dopo che qualcuno lo aveva fatto nero perché la bestiola proprio non riusciva a farsi i fatti suoi.
“Ehi, amico”, gracchiò il corvo dalla cima del suo rifugio,  “quale cattiva ventura ti porta da queste parti? Non sai quanto è pericolosa la foresta degli uomini per uno come te che non può volare, all’occorrenza?”.

Il lupo, in verità, cominciava a rendersi conto dei pericoli che correva e in cuor suo diede ragione a quell’uccello del malaugurio, ma, con il cammino e la consapevolezza del rischio, era cresciuto anche il desiderio di conoscere quegli esseri strani che si muovevano su due piedi (e per questo al lupo apparivano molto instabili e squilibrati) e sembravano avere sempre fretta di andare chissà dove, di fare chissà cosa, senza mostrare curiosità per alcunché: solo affrettarsi verso un qualche luogo misterioso, che il lupo ormai aveva deciso di scoprire.
Pertanto, li seguì a lungo, impresa, in verità, non difficile, perché ce n’erano dappertutto e, tutto sommato, non gli davano fastidio, anzi lo degnavano appena di uno sguardo, ma non apparivano né sorpresi della sua presenza né interessati a lui, anche perché, spesso, non badavano nemmeno alla strada che percorrevano, mentre parlavano da soli, a voce alta, con uno strano arnese appoggiato ad un orecchio, forse, ipotizzò l’animale, per invocare aiuto da qualcuno (di solito, parlando, guardavano in alto o lontano), contro un pericolo che li minacciava e di cui lui non poteva rendersi conto.
Eppure…per qualche motivo a lui del tutto ignoto, questi esseri così distanti e indifferenti nei suoi confronti, non avevano esitato a raccontare ripetutamente della sua cattiveria…

Citta
©Maurizio Tangerini

Si avvide, finalmente, che la loro fretta si spegneva spesso in grandi spazi coperti, dov’era esposta tantissima merce (lui era un vecchio lupo e non sapeva che quei campi immensi, dove fiorisce tutto ciò che è inanimato, si chiamano centri commerciali) e lì si riempivano le borse di prodotti d’ogni genere, con la stessa voracità con cui lui in tutte le loro favole si era regolarmente riempita la pancia di pecore e di agnelli. “Forse mangiano tutta questa merce”, provava a ragionare il lupo, “ma”, aggiungeva perplesso, “ci sono oggetti che nemmeno i miei denti, tanto più potenti dei loro, riuscirebbero a frantumare”.
Poi dovette constatare che potevano fare anche di peggio: urlare, agitarsi, litigare come… bestie, quando qualcuno tentava di scavalcare qualcun altro nella fila, davanti ad uno strano arnese, dove ad un loro simile tutti pagavano una specie di pedaggio.
“Forse”, si sforzava di capire il lupo, “ questo è passato avanti perché è più affamato degli altri”, ma in verità, questa ipotesi, appena formulata, gli appariva subito piuttosto debole.
Talvolta, per strada, nonostante la fretta che sempre li assillava, capitava che alcuni si fermassero e se le dessero di santa ragione; talaltra, il lupo lo intuiva (non era moderno, ma il fiuto non gli mancava), qualcuno dall’aria più furba tendeva un tranello ad uno meno avveduto: insomma, fretta e lotta dominavano la città degli uomini, e i più deboli se ne tornavano regolarmente a casa con le ossa ammaccate.

Il lupo tenne in osservazione gli uomini per alcune settimane, prima di giungere a qualche fondata conclusione su di loro (ché lui era un lupo, ma non privo di scrupolo, checché se ne dicesse, e non voleva macchiarsi la coscienza facendo torto a qualcuno), ed ebbe la certezza che questi stranissimi esseri non solo sarebbero potuti riuscire pericolosi in qualsiasi momento ai lupi come lui, ma, e qui la comprensione dell’animale si arrestava irrimediabilmente, lo erano soprattutto per gli individui della loro stessa specie. E notò, per di più, che di solito non mutavano il proprio comportamento, nemmeno quello che persino a un lupo, così, a naso, appariva sconcertante e… irrazionale.
“Questi uomini non riuscirò mai a capirli davvero”, concluse allora l’animale alquanto deluso e rassegnato; “però,” si riprese subito con giusto orgoglio, “ho capito bene perché favoleggiano tanto della mia cattiveria e sono così sicuri che non perderò mai il mio vizio”.

La osservo tacere

Donna alla finestra
©Pep

La osservo tacere
dolorosamente
separarsi dal mondo
con pochi impercettibili gesti
come gli offrisse la voce
in olocausto
per placarne la collera
e mentre cerco di aprirmi
un varco
nel suo ostinato silenzio
di lei mi ferisce
l’incompiutezza di uno sguardo.

 

 

 

Sponde di voce

Il verso del poeta sembra voler farsi carico del silenzio della donna, dei suoi “olocausti di voce” su sfondi lontani di mondo… ma la ferma e ferita volontà lirica è solo, intorno al silenzio, reticolato di parole, impregnate d’umanissimi incompiuti e non detti, come conchiglie su sponde di sacrifici. (M.R.I.)