Sicilia Cenerentola

“Non cianciri bedda, non è cosa bona
ora tu vai unnì si balla e si sona”
un coppu i bacchetta cù tutta a sò fozza
e un casciabancu divintau carozza
[1]

Villa Piccolo
Villa Piccolo in un acquerello

Di fronte a continue minacce di sciagure culturali, tra cui la chiusura dell’amata Villa Piccolo, e alla generale e istituzionale incapacità di formulare interrogativi vitali sul proprio e altrui passato, presente e futuro, propongo una riflessione che, seguendo lievi tracce linguistiche tra italiano e dialetto, dialoga giocosamente sul “nuovo” e l’ “antico”, sulla speranza e la disperazione; a suggerire la possibilità (e la necessità) d’una riscoperta culturale autentica.
Quando leggiamo e scriviamo, sogniamo e giochiamo, quando amiamo… la vita diventa il nostro vasto presente.

C’è un proverbio siciliano che riconosce alla zucca (cucuzza) molte forme e una sola sostanza, con una perentorietà sapienziale e spietata potenzialmente capace di scoraggiare persino la libertà creativo-maieutica della s-memorabile fatina di Cenerentola. E’ una vera fortuna che la dea ex machina della fiaba sulla metamorfosi per eccellenza, non si sia mai trovata a passare da queste parti: non abbia mai visto esercitare l’arte della disperazione una nonna ai fornelli o una vecchia volpe (pardon, gattopardo) alla principesca scrivania. E se oggi è il dialetto a far le veci della cenerentola, cucuzza multiforme (non meno dell’ingegno di Ulisse), ma anche solido, essenziale veicolo di nette eppure ombrose verità, non si negherà ai giovani siciliani, a causa della pronuncia innaturale, la possibilità dell’amore per le voci che magari hanno solo annusato nei baci dei nonni. (Ho sentito di una nonna che, nell’accogliere l’italianissima nipotina, le diceva “ciaurusa”).
Non si negherà loro il sentirsi figli di Pirandello, ovvero figli di verità che non possono essere nette, ma restano ombrose negli specchi infiniti (anche linguistici) che frantumano e ricreano le forme del loro essere-non essere siciliani. Si riconoscerà piuttosto alla loro ricerca di verità umano-artistica la capacità d’innamorarsi del dialetto, senza prendere il metro per misurarne la distanza dai propri mondi, semmai prenderanno la metrica e salteranno di slancio la corda (pazza).
Non c’è bisogno di sperare che la carrozza dell’italiano si trasformi di nuovo nella cucuzza del dialetto: il lieto fine omologato dell’Italia alfabetizzata e mai così ignorante, non impedisce a un bambino d’inventare una nuova parola, e a una bimba magno-greca di scoprire intuitivamente il legame misterioso tra eros polemos thanatos, quando fa sciarriare nel gioco principi e principesse.
Mi chiedevo dunque (e non vorrei sembrare polemica e piena di sassolini nella scarpetta, ma solo una, nessuna e … che si esercita, almeno fino allo scoccare della mezzanotte, nell’arte dell’alternativa)… non si potrebbero variare le morte ricette autocelebrative di molti eventi culturali, e improvvisare, a partire dalla forza irriverente ed esoterica del dialetto, una bella seduta spiritica nello stile dei fratelli Piccolo per evocare gli spiriti di tutti i poeti, gli scrittori e tutti i pazzi di Sicilia (senza, beninteso, allisciari u pilu ai gattopardi)?
E il medium sarebbe l’italiano o il dialetto? Carrozza per cucuzza, cucuzza per carrozza, se vogliamo che tutto rimanga com’è….

Pattiu a figghia vistuta d’oru e d’argentu
nà stidda paria dù firmamentu
a unnì annau puttau luci e splendori
e ò principi azzurru ci trasiù ‘ntò cori

 

[1] I versi riportati all’inizio e alla fine dell’articolo sono del poeta dialettale Pippo Bonaccorso.

Lo straniero, il teschio e il prigioniero

Castello di Aci Castello
©Erika Weinmann, 1985

Mi ero spinto in quel piccolo paesino così, un po’ per caso e un po’ per la voglia di far qualcosa di alternativo, in quella cupa ma afosa domenica di Aprile. Con la mia utilitaria dalla freccia mal funzionante, in preda ad un impulso di esaltante libertà e indipendenza, girai più volte tra i vicoli e le stradine rifiutandomi persino di rispettare i segnali stradali! Trasportato da tutto ciò, decisi di lasciare la macchina in un vicolo cieco, non curante della gente che seduta al bar di fronte mi fissava: – In fondo- mi dissi – potrei biascicare qualche parola in spagnolo e farmi passare per un turista inesperto!
Sceso dalla macchina, quello che vidi fu un immenso spettacolo storico-naturale: un enorme castello che si affacciava sullo splendido mare azzurro tipico della mia Sicilia, quella stessa Sicilia che in quell’ultimo periodo mi dava forti dispiaceri e che, invece, in quella insolita mattina, era riuscita a stupirmi a sorpresa ancora una volta.

Proprio mentre fissavo inebetito tutto questo, una voce alle mie spalle sussurrò dolcemente, ma non per questo non facendomi trasalire: – Questo castello si erge su una rupe esito di un eruzione sottomarina che risale a milioni di anni prima della formazione dell’Etna!
Fu così che feci la conoscenza del guardiano del castello, un uomo minuto dall’occhialino tondo e dall’animo del poeta, la qual cosa mi fu subito chiara non appena, facendomi strada tra gli scalini, come captando il mio stato interiore, mi disse: – Una mela non ha rimorsi![1] Vada per il castello, troverà le risposte che cerca!

Ringraziai e, pensando a chissà quanta gente era stata rifilata questa stessa frase per incrementare l’entusiasmo della visita, iniziai a girovagare nelle terrazze immense, stupito dalla vista celestiale che il posto mi offriva. Da una di queste riuscii persino a scorgere l’isoletta proprio lì davanti e mi chiesi se fosse ancora accessibile. Dopo aver fatto qualche foto, tornai indietro e, mentre mi avviavo all’uscita, mi resi conto che c’era un’ultima stanza da visitare. Scesi quindi qualche scalino e, passando sotto un piccolo porticato, mi ritrovai dentro a un’area che, diversamente dalle altre, ospitava delle teche di vetro che custodivano reperti archeologici probabilmente risalenti all’epoca primitiva. Tra questi vi erano anche alcuni teschi di primati, non ne avevo mai visti prima e la cosa mi affascinò parecchio: in fondo visitare quest’ultima stanza non era stata affatto una perdita di tempo. Fissavo interessato, quasi alitando sul vetro, quando improvvisamente un teschio, tra l’altro diverso dagli altri, iniziò a parlare raccontando una romantica e triste storia: la storia del prigioniero del castello, un uomo che in epoca lontana, era stato tenuto in catene nelle segrete alle quali si poteva accedere solo tramite la botola al piano superiore, la stessa botola che adesso il custode chiamava “pozzo dei desideri”.[2]

Il teschio raccontò che l’uomo era stato severamente punito per aver cacciato selvaggina appartenente al Signore del posto, il quale aveva deciso che, visto che gli era stato rubato un pezzetto di cielo, la pena sarebbe stata la medesima: l’uomo sarebbe stato imprigionato dentro una botola da dove il cielo era visibile solo per una piccolissima porzione, così da poter ricordare di cosa era stato privato e di chi fosse dunque il potere.
Ed infatti il prigioniero passava minuti, ore, giorni interi a pensare a tutto ciò che aveva e che aveva perso, alla sua terra, alla sua vita e in particolare pensava a Teresa, la splendida Teresa che gli aveva rubato il cuore e il cui battito di ciglia l’aveva fatto innamorare. Ed era proprio quest’immagine suadente che il battito di ali di quella beccaccia gli aveva evocato, e ancora questo il motivo che lo aveva spinto a catturarla, non dunque per ucciderla, ma semplicemente per tenerla con lui, per sentirsi vicino alla sua amata.
Così lui pensava e ripensava finché un giorno, dalla grata sopra la sua testa, cadde, probabilmente portato dal vento quasi per magia, un piccolo pezzetto di cenere nera, forse proveniente dal grande Etna ancora in eruzione.
Quella sì che fu per il povero sventurato una benedizione, perché poté usarlo per scrivere sulle pareti della cella, divenuta ormai sua triste dimora, una splendida poesia per l’amata, che la sera, al sorgere della luna, amava invocare ad alta voce, sperando che un flebile alito di vento potesse sussurrarla all’ orecchio di Teresa prima di prender sonno… chissà che in codesto modo fosse più facile incontrarsi nei sogni.
Ciò purtroppo non accadde, gli anni passarono lenti ed inesorabili finché il prigioniero si arrese al suo destino e si lasciò  morire. Questa storia era estremamente triste e io, non curante dell’assurdità di ciò che stava accadendo, preso dall’enfasi del racconto, lo dissi al teschio quasi insultandolo per aver incupito ancora di più la mia giornata! Lui, dal canto suo, non sembrò rimanere male per questa mia reazione, né tanto meno sembrò a sua volta essersi arrabbiato. Fece piuttosto un sorriso amaro e disse:

“O furisteru câ vinisti di luntanu,
picchì ha’ renniri ancora chiù pisanti lu me distinu amaru?
Non vidi chi d’ ’i me carni ristau sulu ‘na crozza vacanti?
Si ’u destinu ti purtau ccà supra un mutivu ci saravi!
Fammi ’nu favuri!
Ccussì câ me anima possa raggiungiri ’u Criaturi!
Va’ ‘ntâ ’dda isuledda e cunta i me versi sutta a l’àlbiru supra â cullina,
a ’dda cruci ‘ntâ terra cà vasa di tant’anni ’u me Cori!”
[3]

Disse questo e poi più nulla! Dopo qualche istante di silenzio, fu come se improvvisamente tornai in me e la prima reazione fu quella di stropicciarmi gli occhi e asciugarmi la fronte. Il caldo mi aveva giocato un brutto scherzo in quello strano castello, sicuramente mi ero lasciato suggestionare dalle parole del custode, quindi bevvi un sorso d’acqua e ridiscesi.

Seduto nella panchina della piazza, fissando la statua della madre, le parole che avevo immaginato di udire mi ritornavano alla mente come un disco rotto senza che riuscissi a liberarmene… in fondo, non avrei perso nulla nel recarmi su quell’isola, anche solo per esplorarla o per dimostrare a me stesso che sicuramente non avrei trovato nulla.
Mi feci dare un insolito passaggio da un vecchio pescatore attraccato al porticciolo, dicendogli banalmente che avevo da fare delle foto per un articolo e, una volta affondati i piedi sulla sabbia, iniziai il mio cammino sull’isola, forse anche un po’ contrariato dalla sensazione di inebriante curiosità, la stessa che mi aveva portato fin lì. Camminai per un lungo tratto finché mi resi conto di essere un po’ più in alto rispetto al livello del mare, mi guardai intorno e, a qualche metro da me, vi era un salice che muoveva le lunghe fronde a destra e a sinistra, come accarezzando qualcosa. Mi avvicinai piano piano e sotto la vidi: era proprio la croce di cui parlava il teschio, una croce di legno scuro affondata nella terra, priva di qualunque segno o scritta. Preso da un irresistibile impulso, come in forma di rispetto, mi inginocchiai lì accanto e, seguendo ancora una volta il mio istinto, ripetei la dolce poesia del prigioniero verso dopo verso e, proprio quando stavo per terminare, sentii di nuovo una voce, stavolta femminile ma forse più lontana, che mi disse: – Non importa quanto sarà lunga l’attesa, segui sempre il tuo cuore!

Ancora oggi, quando penso a quello che avvenne quel giorno, mi sento invadere da un senso di tiepido e avvolgente mistero: varie le domande che mi sono posto, i dubbi, le congetture… Ma adesso, seduto nella mia poltrona comoda e accogliente, mentre seguo la rotta delle rughe che solcano le mie mani, mi piace pensare che forse sono stato scelto come l’ultimo testimone di questa fantastica storia perché sarei stato in grado di farne tesoro, scelto dunque come ultimo uditore del prigioniero che ha affidato proprio a me la sua più intima preghiera: quella di consegnare a Teresa il suo dolce messaggio d’amore ispirato dal cielo sopra la città del castello.


[1] Verso del poeta-custode Davide Aricò.

[2] Questa storia trae libera ispirazione dal racconto che viene effettivamente narrato dal custode a chi si reca in visita al castello di Aci Castello.

[3] Ci si scusa per eventuali errori di trascrizione del dialetto, ma il nostro povero straniero ha riferito meglio che ha potuto quel che udì quel giorno lontano. Inoltre, per chi è ancora più straniero dello straniero, riportiamo le parole del teschio in italiano: “Oh straniero che sei venuto da lontano, perché vuoi rendere ancora più pesante il mio destino amaro? Non vedi che del mio corpo rimane solo un cranio vuoto? Se il destino ti ha portato quassù un motivo ci sarà! Fammi un favore, in modo che la mia anima possa raggiungere il Creatore! Va’ in quell’isoletta e declama i miei versi sotto l’albero in cima alla collina, a quella croce nella terra che bacia da tanti anni il mio Cuore!”

L’immagine dell’anima

Nudo di donna addormentata
©Mino Lo Savio, 1993

Ho appena aperto gli occhi
ed anche oggi come ogni giorno
interrogo il mondo riconosco
gli oggetti le persone che amo
quello che mi rassicura
è ancora con me
è ancora arcaica la mia
percezione delle cose
la notte appena finita
non mi ha lasciato indenne.

* * *
Guardo la sua pelle
dormire ancora sulla mia,
come se il suo viaggio notturno
fosse ancora lontano
dalla destinazione;
lei mi ricopre di sé
senza pudore né ritrosia,
come un animale fiducioso
e il suo amore per me
rimane un miracolo
o forse un sortilegio.
Stamane questo letto può
accogliere qualunque
perdono.

* * *
Mentre si fonde col mio
il suo corpo me ne trasmette
il profumo tenue
suscitando la mia
resurrezione
è lei
tenera e infinita.

 

 

Risvegli di versi

Il rito d’ogni giorno necessita fonti di senso: tra una “notte finita” e una “donna infinita” i versi confermano, e al contempo eludono, i contorni delle cose e delle ore; giungono animati dall’urgenza magica del corpo amato, insieme àncora e vascello del navigare la vita e naufragare la poesia. (M.R.I.)

La notte dei Malavoglia

La terra trema
La terra trema (1948) di L. Visconti

Ombre
chinate
sull’abisso

affanno
impietrito
della riva

quando il vortice
schianta
gli scogli

e la Puddara[1]

 


[1] Stella polare (termine dialettale usato da Verga).

 

 

Nero Malavoglia

Nero notte, nero mare, nero sciara, nero abisso, nero cuore, nero morte, nero di stelle capovolte, come barche o speranze.

 

 

 

 

 

 

Aci Castello: cronaca di un desiderio

Turchineggiando
©Davide Saporita, 2013

C’era una volta un desiderio: tutti sanno che, quando si tratta di desideri, bisogna fare nel cuore acrobazie per “custodire”, da una parte, ed “esprimere”, dall’altra. Allo stesso modo, a tutti i bambini e a tutti i poeti è chiaro che il desiderio serve soprattutto a chi lo porta dentro: serve a disegnare e ri-disegnare il tempo, lo spazio, e a mettersi poi in qualche modo speciale all’interno di quel paesaggio… Ognuno ha dentro di sé, che lo sappia o meno, varie cartine geografiche disegnate dai suoi desideri: capire chi siamo è tutto un rintracciarne le coordinate…
Sul nostro tappeto di fiabe (di Rosy, Maria Grazia, Davide, Ylenia e Maria Rosa) non conta, ma canta, l’età, il sesso, la non-professione, i colori e le misure di ciascuno: ci diamo la libertà di mescolare tutte queste cose, per incrociare coordinate e incontrare persone attraverso personaggi, mai viceversa… La differenza la fanno proprio i desideri: piu’ sono ben custoditi e ben espressi, piu’ diventa facile incontrarsi e raccontarsi; piu’ i desideri sono nascosti, imbacuccati e incastrati dentro il cuore, piu’ è complicato, quasi impossibile.
Un giorno di primavera a cuor leggero portammo i nostri desideri ad Aci Castello: ognuno di noi aveva già, certo, i suoi paesaggi interiori segreti, ma per tutti, subito, fiorirono in quel luogo altri desideri vecchi e nuovi, schiacciati tra il cielo e il mare in un abbraccio, in una via senz’uscita che però era la piu’ vicina ai nostri “bersagli” (castello e biblioteca)… Non importava se l’insegna del bar vicino si faceva già gioco di noi, in un tacito Scacco matto: per chi allestisce di mestiere partite nabokoviane tra vita e letteratura, poteva addirittura suonare di buon auspicio!
Nel castello c’è un custode, nel custode c’è un pozzo, nel pozzo ci sono dei desideri; nel custode c’è un castello, nel castello c’è un pozzo, nel pozzo ci sono dei desideri. I nostri desideri, sempre piu’ schiacciati tra cielo e mare e tenuti appena appena a terra dalle pietre del castello e dalla voce del custode, facevano fatica a entrare nel pozzo: finché, all’ultimo lancio, la monetina si fermò proprio sulla soglia e per un soffio non cadde nel pozzo. Si potrebbe pensare che sia stato un caso, ma in quella monetina ci parve di scorgere, al contrario, una risoluta quanto capricciosa consapevolezza, in grado di tenere testa a tutte le consapevolezze e le soglie spirituali di chi l’aveva lanciata… Scacco matto. In quel preciso momento, ci fu chiaro che non tutti i desideri si sarebbero realizzati, ma, con l’aiuto provvidenziale del custode, capimmo che ciò era un bene: i desideri che non sono sulla nostra strada, non realizzandosi, lasciano tempo, spazio e forza agli altri desideri, per disegnarci nel nostro paesaggio naturale. Scacco matto ai desideri non realizzati.
Nella biblioteca ci sono due ragazze, nelle due ragazze ci sono dei libri, nei libri ci sono dei sogni; nelle due ragazze c’è una biblioteca, nella biblioteca ci sono dei libri, nei libri ci sono dei sogni. I nostri sogni erano evidenziati d’azzurro a metà pagina e aperti… Aperti a tutti i colori che ricevevano e donavano in quell’angolo dipinto di mondo… Tutti i nostri oggetti di scena e di vita (tappeto, gomitolo, valigia, mappamondo, marionette con Fata Turchina in testa e alla mano) erano pronti a quello scambio ventoso di colori, desideri e sogni, e a tutte le turchinerie possibili immaginabili che l’amore multiforme per la vita e la letteratura può suggerire… Scacco matto all’odio.
Nei nomi (che abbiamo cercato d’imparare) ci sono i ragazzi di Aci Castello, nei ragazzi di Aci Castello ci sono i “personaggi” e le “persone” del loro presente, nei personaggi e nelle persone del loro presente ci sono le loro emozioni. Nei ragazzi di Aci Castello ci sono dei nomi, nei nomi ci sono i loro personaggi e le loro persone, nei loro personaggi e nelle loro persone ci sono le loro emozioni. Le nostre emozioni dicevano e collegavano, col filo rosso delle fiabe, nuovi nomi sulle pietre antiche dei nostri personaggi e delle nostre persone… Raccontando di Aci e Galatea, abbiamo scoperto che un fine non-lieto può essere l’inizio di qualcosa di diverso sulla nostra strada, trasformare i nostri desideri e trasformarci; che ci sono molti modi d’amare e l’amore vero non finisce, ma si trasforma, quando è vero per davvero e i desideri non sono orologi e altalene, o vivono imbacuccati per non prendere il raffreddore. Scacco matto agli orologi, alle altalene, e pure al raffreddore! Se non mettiamo gli altri sulle nostre altalene, nei nostri orologi, e dentro i nostri raffreddori, può capitare che gli altri diventino in noi delle sorgenti e dei colori e, così, non muoiano mai. Scacco matto alla morte.
Ora che siamo tornati qui nel nostro castello di carte e sul nostro tappeto di fiabe (di Rosy, Maria Grazia, Davide, Ylenia e Maria Rosa), con i desideri dei ragazzi di Aci Castello in valigia e i nostri desideri trasformati, i bersagli spostati, sappiamo (e anche questa consapevolezza è una turchineria) che torneremo ad Aci Castello… e il nostro unico desiderio sarà ascoltare quella bimba che ci diceva: “Io ho una storia”… E quando ci sentiremo dire dalla vita “Scacco matto”, avremo il felice sospetto di essere piu’ vicini alla meta.