Abito il bordo di un canto
lontano lievito di Luce
il nulla innamora il giardino
di un’acrobazia chiara
richiama
cose da risacche d’invisibile
in aliti di cielo
finché tutto si stringe in limite di luna
Tu Sei
fraterno infinito e nulla
allargato a favola
A bordo canto
Il verso si fa privilegiata e cara sponda di visione, miccia di dialogo, ascolto acceso di forme, aprirsi inesauribile e intimo di vita segreta di cose.
“Così conosco una musica dolce nel mio ricordo senza ricordarmene neppure una nota: so che si chiama la partenza o il ritorno.”
D. Campana
Comporre un dialogo con la voce poetica di Lucio Piccolo non significa soltanto scoprire versi sublimi, ma in qualche modo scoprir-si, tra radici vive e volute liriche, all’interno di un possente magnetismo culturale, di un’ariosa sorpresa di pensiero, di un potente incanto della parola. Incanto in cui pure il cosmico carico pensoso si fa “solubile” polvere di suono, a posarsi e spostarsi in danze sillabiche su tempo perduto… continuando (e questo il bello!) a perderlo… tra solenni “ingombri” d’antico e raffinate vitali trame di memoria.
La corolla di questo presente lirico-esistenziale è proprio la memoria: con petali e code di secoli il suo gioco urgente e pulsante, nonché vano, è spalancato su un’oggettività apparente, tutta interiorizzata, sul darsi e negarsi simbolico del mondo… dove la filosofia indaga, la poesia calamita.
E il mondo che entra dal verso di Piccolo è segnato da quella frenesia di forme tipica delle epoche in declino, da un intenso dispiegarsi fenomenologico, tra mito e natura, dove il “sapere” e l’ “essere” (perduto lo smalto d’immota certezza) si danno in dosi cangianti e sonanti di cose, che ne “sorreggono” il mistero, il “nulla d’inesauribile segreto” (Ungaretti), le increspature di morte… gli splendenti frantumi. Eppure nella tensione lirica, nel barocco profondo tra essere e nulla, tra abbraccio vitalistico e abbandono nostalgico, dove rifluisce e si “nasconde” anche l’io lirico, tra morsa romantica del limite (formale, storico ed esistenziale) e slargo d’infinito, si consuma ancora una fiamma simbolica, una residua tensione verso l’alto velata di sogno (assente in Montale) della quale l’oggetto è investito.
Quest’io lirico fuso nelle dolcezze di un’atavica altalena, di un dondolio onirico schiuso sul labile infinito del Novecento, nascosto tra le fronde dei secoli e la mobilia degli anni, appare affine a un altro io lirico che, però, tende non a fondersi e nascondersi, ma a rivelarsi in tutta la sua amorosa ansia soggettiva… S’inseguono le struggenti semine musicali di colori del canto orfico di Campana e di quello barocco di Piccolo… si chiamano le visioni dei Luoghi nella loro luminescenza interiore di suono, nella notte come culla tempestosa e stellata, richiamo di mito e d’ombra: nei Canti Orfici[1] “passano nella veglia opime di messi d’amore, leggere spole tessenti fantasie multicolori, errano, polvere luminosa che posa nell’enigma degli specchi” (La notte); in quelli barocchi[2] “subito allo schermo dei sogni/ soffia in vene vive volti già cenere, parole àfone…/ muove la girandola d’ombre” (La notte).
“Su da le pagine risuscitava un mondo defunto, sorgevano immagini antiche che oscillavano lentamente coll’ombra del paralume e sovra il mio capo gravava un cielo misterioso, gravido di forme vaghe, rotto a tratti da gemiti di melodramma: larve che si scioglievano mute per rinascere a vita inestinguibile nel silenzio pieno delle profondità meravigliose del destino” (Dualismo, Lettera aperta a Manuelita Etchegarray).
I cantori del “crepuscolo mediterraneo” imprimono alla parola la luce e il fruscio di un viaggio incessante nella vita, denudata dal mito, accesa dal simbolo, adorna di memoria: non importa, anzi accresce il fascino di quest’affinità, se il viaggiare di Campana è anche inquietamente fisico fino alla definitiva chiusura in manicomio, mentre il viaggiare di Piccolo è quasi esclusivamente culturale e spirituale, nella solitaria apertura della Villa di contrada Vina a Capo d’Orlando (Messina), che non manca ancora oggi di mettere in moto profondi percorsi culturali ed esistenziali, di calamitare “identità in cammino”[3].
E in effetti, la poesia di Lucio Piccolo, maturata nella “tregua” magica della Villa, sembra attingere a un vorticoso nucleo d’assoluto, conducendoci al danzante miraggio della lettura, dove la sostanza barocca dell’esistere e la sostanza sin-estetica di Luce e Suono srotolano lungo il verso un cinematografico nastro di forme che illumina e illude sulla possibilità della poesia di abbracciare “Tutto”.
La grazia di una totalità negata all’uomo contemporaneo anima l’illusione lirica di Piccolo attraverso il ritmo e la visione, in un continuo presente poetico come fondale mobile, “schermo”, “scorrente parete dipinta”, per apparizioni e sparizioni di forme, tra voce per vedere il tempo e luce per sentire lo spazio: “… un attimo ed ecco mutate/ splendon le forme, ondeggian/ millenni” (Mobile universo di folate).
Dal particolare rapporto estetico tra un eterno sfondo d’essere e un travolgente mutamento multiforme, scaturisce, complici i respiri delle inarcature, quell’effetto di ciclica continuità sospesa tipico del verso piccoliano (tipico, a ben vedere, anche dell’interiorità), in cui non si comincia e non si finisce, si cambia di continuo per non cambiare mai… “perenne/ vorticare in frantumi/ veloci, riflessi, barlumi/ di vita o di sogno” (Gioco a nascondere; questo concetto troverà la sua celebre applicazione alla Storia nel romanzo di Tomasi di Lampedusa, ma la poesia di Piccolo ne costituisce la meravigliosa realizzazione estetica).
“Nel guardaroba della natura/ c’è un mucchio di costumi” (Szymborska). Il flusso musicale di metafore e metamorfosi che trasforma, attraverso il “filtro magico” di un fitto intreccio fonico, il tempo perduto in tempo ritrovato, i fantasmi in fratelli, che la sapienza artistica apparenta al sogno: “Sospetto che la luna/ lontana e avvolta pure non tralascia/ gli infiltramenti oltre le mura e pone/ lenta bozzoli di bambagia,/ matasse di filamenti di umori/ albi e lo sa/ la gonna appesa nel sonno di canfora” (Gioco a nascondere). I versi arrivano col fiatone del nulla alato del gioco poetico, con l’ “inutile” urgenza del ricordo e del richiamo, riuscendo a trovare un loro oscillante splendente originale equilibrio tra opposti, a salvare un rimando d’armonia quasi pitagorica, a piantare una scheggia d’universale nel cuore diviso delle cose.
Incontrano, tra gli altri, i passi angosciosamente soggettivi di Campana, che scende a bagnarsi in inferni mitici e sogni barbari, a ferirsi in specchi di occhi di donne e rivedere “magri cavalieri dell’irreale […] dagli occhi perforanti di nostalgie feroci, tutta la grande piazza ardente di un concerto infernale stridente e irritante” (Dualismo, Lettera aperta a Manuelita Etchegarray), “riflettono” e “rispondono” all’inquietudine frantumata d’infinito dell’esoterico Pessoa, ai chiaroscuri ragionati sulla “corda pazza” di Pirandello: “si leverà quando vorrà la Notte/ assunta su le volte/ e le vegliarde e i fusi/ daranno il segno/ sui pendoli, ai quadranti acherontei” (Gioco a nascondere).
L’orologio lirico di Lucio Piccolo è un congegno perfetto che scandisce, come in una solare acrobazia sospesa, come nel distacco coinvolto del sogno, sentimento del tempo e sentimento del contrario, a comporre e scomporre il colorat-oscuro caos della cultura europea del Novecento.
Nel cielo di carta di quella cultura, come in ogni cielo, si possono distinguere raggruppamenti luminosi e, con più fatica, “dove si è cessato di guardare/ o non si guarda ancora”, stelle che brillano in solitudine.
Montale per primo accosta Canti Orfici e Canti barocchi (oltre che per un “afflato, un raptus”) per i “caratteri frusti e poco leggibili” della veste tipografica…
Quei caratteri mi sembrano oggi teneri e beffardi “correlativi oggettivi” di un destino di solitaria grandezza, di “smemorata” esclusione, che autenticamente accomuna Dino Campana e Lucio Piccolo, pur con le dovute differenze e la maggiore fortuna postuma del poeta toscano, pagata però col sangue della patente di matto… Del resto non a tutti la vita concede il lusso di una sana follia in compagnia di benevoli folletti al posto di diabolici parenti e loschi psichiatri!
E mi sembra che quei caratteri “frusti e poco leggibili” ci guardino dal cielo di carta della poesia, come dal cielo sopra Villa Piccolo, invitandoci alla dolcissima fatica della memoria.
[1] I passi citati nel corso dell’articolo fanno riferimento all’edizione Canti Orfici, Corriere della Sera (Un secolo di poesia, 35), Milano 2012.
[2] Per le citazioni delle opere di Lucio Piccolo si fa riferimento a Canti barocchi e Gioco a nascondere, Libri Scheiwiller, Milano 2001.
[3] “Identità in cammino” era nel 2012 il tema de Le Porte del Sacro, rassegna che si tiene ogni estate a Villa Piccolo.
fissano incuriositi
il nostro torpore affaccendato.
Anche Stromboli
è respiro impalpabile
perduto all’orizzonte.
Ma i nostri passi
lasciano grevi
impronte di dolore
nel soffio dell’alba
che disperde il tuo mondo
La notte degli elfi, il giorno degli uomini
La notte è magica e abitata da creature benevole e leggere nella luce lunare, che ingloba e alleggerisce, come nella distanza sfumata di un acquerello, anche il paesaggio lontano.
Ma, alla luce del nuovo giorno, il miracolo s’infrange sulle orme umane impresse nel dolore della terra.
Versi spettrali
nelle ore smaltate:
la tenerezza vuota
a braccia aperte.
Sono un mondo
di sangue e stelle
da stordire d’azzurro
(la buca era così profonda
che è tutt’uno tornare bambina
e diventare donna).
La vitalità custodita della Villa
fra pensieri e alberi
forme antiche sotto teli di palpiti:
lo trovai in un cassetto e dentro
una metafora chiamata “Sicilia”,
negli scrigni contrari del cuore
una, nessuna e milleuna.
(Volli essere sua
da quando strappai in fretta il primo fiore
dal mio giardino di parole,
e su quello che lo divide dalla mia pelle
nacque un prato di stelle).
E si a notti sciarriata
cala ciauru mutu
supra i nustri cunti
e non sacciu a unni si[1]
Se i sogni scendono
e sciolgono e slacciano
senza i versi
e non so dove sei…
[1] E se la notte bisticciata/ fa scendere profumo muto/ sopra i nostri racconti/ e non so dove sei
Viva a parole
La parola poetica vive e fa vivere: apre vaste e contro-verse arcate d’Essere, si fa tempo-luogo d’incontro e racconto… (meta)teatro di ricchezza conflittuale, richiami magici, intense sintonie isolane.
Vegliava il grande marittimo
di tanti rami d’ombra la vedetta
il cimitero cani–gatti
gli spiriti elementali la stretta
Qualcuno, altro suono, contava
di loro le note e del padrone
di quanti umido naso annusano vita
ancora, nell’ancora
Tu quel pino ascoltando e la voce
la mano di ruga corteccia leggera
la brezza il mistero la morte l’amore
del fremere il giocatore
La luna di scuro lenire
dal buio nel cono stellare
le notti (e il barone sorride)
magiche imperiture
Cerchi e cieli magici
Nei cerchi concentrici del verso si annida la vita: si “domina” e sparge l’eco del tempo; si rinnovano presenze contese a cieli vuoti, strappate dal delicato accordo di una parola: per sorridere ancora magiche su luminosi silenzi. (M.R.I.)
* Le notti di Casimiro è il titolo dello spettacolo teatrale, scritto da A. Samonà e rappresentato nell’estate del 2012 a Villa Piccolo, dal quale la lirica trae ispirazione.